Shezad Dawood è un artista complesso e versatile sia da un punto di vista formale che contenutistico. Si esprime attraverso pittura, sculture di luce neon, video e cinema. Si circonda di collaboratori, esperti di campi diversi, con cui crea nuove connessioni e da cui assorbe informazioni che riformula e ricontestualizza nelle sue opere. Dawood prende spunto da fonti lontane nel tempo e nello spazio, approfondisce temi di ogni genere, dalle tradizioni culturali della sua regione di origine alla fantascienza, dai simboli esoterici e le religioni fino alle realtà extraterrestri.
Lavinia Filippi: Nel tuo lavoro il tema dell’identità è trattato in modo innovativo e va oltre la concettualizzazione convenzionale. Che ruolo ha la tua storia personale nello sviluppo di questo tema?
Shezad Dawood: La storia della mia famiglia e il mio percorso frammentato hanno avuto un ruolo predominante nel perseguire con passione un percorso libero dai limiti identitari imposti dalle caratteristiche nazionali o ideologiche. Mio padre era nato nel 1947, l’anno della partizione dell’India Britannica e della fondazione del Pakistan, e la famiglia di mia madre continuò a fare affari a Goa anche molto tempo dopo la divisione del Subcontinente. Inoltre, mio nonno commerciava con l’Unione Sovietica e mio padre scappò negli Stati Uniti per diventate un fotografo di musica negli anni Sessanta. Quindi, ho nel sangue una buona dose di internazionalismo e mi sono sempre interrogato sulle conseguenze del macrocosmo sul microcosmo. Negli anni, i miei progetti mi hanno portato in Marocco, nel Nord dell’Inghilterra, Winnipeg, Messico e India, per questo tendo a ragionare in termini di fluidità dei luoghi non di fissità.
LF: Ti esprimi attraverso vari mezzi tra cui la pittura, la scultura, il video e il cinema e le tue fonti sono interculturali. Puoi spiegare l’evoluzione del processo creativo di una tua opera?
SD: Sono sempre stato attratto dalla polifonia e dalle collaborazioni, il dialogo e l’aggiunta di nuove voci arricchiscono sempre un’opera. Questo processo richiede però tempo, empatia, pazienza e comprensione. Per il film Towards the Possible Film, (2014) girato a ottobre in Marocco e presentato alla Biennale di Marrakech a febbraio, per esempio, avevo visitato la location per la prima volta undici anni prima. In seguito, le ricerche e le letture intraprese per saperne di più su quel luogo e sulla sua storia, mi hanno fatto scoprire ulteriori racconti e acquisire nuove informazioni che mi hanno appassionato. Tra queste sono rimasto affascinato in particolare dall’antropologia di Pierre Clastres e le teorie quantistiche anticonvenzionali di Robert Anton Wilson. Queste nuove scoperte mi hanno poi portato a organizzare una conferenza con Omar Barreda nel febbraio 2013 al Dar Al Mamum, fuori Marrakech, per la quale abbiamo invitato un meraviglioso gruppo di persone che hanno alimentato il progetto. Erano presenti la scrittrice Kaelen Wilson-Goldie, l’antropologo Kenneth Brown, la romanziera Adania Shibli e lo scrittore curatore Morad Montazami. Morad mi ha chiesto perché non facevo direttamente riferimento a Jean Rouch e Adania mi ha interrogato sulla problematica del linguaggio all’interno dell’opera. Entrambi i quesiti hanno significativamente alterato il progetto. Tutto questo ancora prima di iniziare le riprese! Durante l’estate abbiamo poi organizzato un evento al Witte de With di Rotterdam per studiare le possibilità di una coreografia che avevo in mente, anche questo prima di iniziare. Il fatto stesso di lavorare con diverse istituzioni e curatori convoglia nell’opera finale arricchendola di nuovi significati.
LF: Come evolve invece un tuo lavoro pittorico e in particolare le opere realizzate con acrilico su tessuti ricamati negli anni Settanta e recuperati in Pakistan?
SD: Si potrebbe pensare che le cose cambino quando lavoro su un dipinto da solo nel mio studio, ma non è così. L’idea stessa di ricerca e digressione è il cuore del mio lavoro. Non credo che dipingerei come faccio ora, lavorando spesso con elementi tessili riciclati, se non avessi l’esperienza del montaggio video e della giustapposizione di immagini che ho acquisito grazie al mezzo filmico e che mi fa vedere il mondo come un insieme di elementi da inserire nelle mie opere.
LF: L’attacco alle Torri Gemelle ha sconvolto, come niente prima di allora, gli Stati Uniti e il mondo intero, ha cambiato gli equilibri internazionali e incrinato i rapporti tra l’Occidentale e l’Islam innescando un vero scontro tra civiltà, ma accendendo, allo stesso tempo, i riflettori su una parte del mondo ancora poco conosciuta. Quali sono state a tuo avviso le ripercussioni dell’11 settembre sull’arte contemporanea pakistana?
SD: Credo che immoralmente l’attentato alle Torri Gemelle abbia attirato molta attenzione internazionale sulla scena contemporanea pakistana. Ha generato una strana duplice logica volta alla ricerca di qualcosa di positivo per controbilanciare il neo-status di paria acquisito dal paese. Questa logica deriva da un approccio “arrogante” in cui l’altro viene “bollato” in base a schemi globali predefiniti. L’11 settembre ha attirato l’attenzione su alcuni artisti dinamici che lavorano in Pakistan e all’estero. Il rovescio della medaglia però, come sempre succede con azioni ad ampio raggio sul mercato internazionale, è la mancanza di selezione in termini qualitativi e di reale rilevanza di alcune di queste pratiche.
LF: Sono passati quasi tredici anni dal tragico evento. Qual è la tua opinione sull’odierna scena contemporanea pakistana?
SD: Come ho detto prima, la scena è attualmente incredibilmente dinamica con numerosi artisti di diverse generazioni che comunicano arricchendosi reciprocamente, e anche architetti e urbanisti molto interessanti. Per essere un paese “minore” in termini di influenza, e con atteggiamenti che alcuni definiscono reazionari, il Pakistan si posiziona molto al di sopra delle aspettative per ricchezza e diversità di pensatori e artisti.