In lingua albanese Shkrepëtima significa “lampo” ma può anche riferirsi a un sentimento improvviso e intenso che agisce come attivatore di coscienze. È questo il termine scelto da Petrit Halilaj come titolo del suo ultimo progetto, ma si potrebbe dire che esso riassume l’essenza stessa della visione dell’artista. Per Halilaj l’arte è una “scintilla” in grado di riavviare un processo di riflessione sulla nostra identità e rappresenta un’opportunità per modificare direttamente la realtà tramite l’immaginazione di soluzioni alternative, dove la politica e le logiche economiche attuali hanno già chiaramente fallito.
Il progetto Shkrepëtima, commissionato in occasione della seconda edizione del Mario Merz Prize, prosegue l’indagine dell’artista sulle radici storiche di Runik, la cittadina kosovara dove è cresciuto, dalle sue origini Neolitiche fino al suo passato recente. Utilizzando scultura, video, performance e disegno, Halilaj ha sviluppato una profonda riflessione sui meccanismi di costruzione dell’identità culturale, sul valore della memoria e sul ruolo dell’arte nella formazione della coscienza collettiva nella società contemporanea. La mostra alla Fondazione Merz rappresenta il momento culminante e conclusivo del progetto il cui primo e fondamentale capitolo è la performance tenutasi a luglio 2018 presso le rovine della Casa della Cultura di Runik, luogo che per oltre trent’anni è stato il simbolo dell’identità culturale dei suoi cittadini. Risalente all’epoca dell’ex Jugoslavia, l’edificio un tempo ospitava una biblioteca con oltre 7.000 volumi, un cinema e un teatro dove venivano organizzati regolarmente spettacoli, e la sede della cooperativa sociale del villaggio. Le attività si erano già interrotte con l’aggravarsi della situazione politica prima della guerra e l’edificio era poi stato parzialmente distrutto durante il conflitto. La struttura era in totale abbandono prima dell’azione dell’artista che, insieme ad alcuni membri della comunità, lo ha ripulito e messo in sicurezza per ospitare l’evento. La performance è il più importante intervento nello spazio pubblico mai realizzato da Halilaj e ha coinvolto circa un centinaio di persone tra performer, musicisti, attori e abitanti del villaggio. Uno sviluppo considerevole nel percorso dell’artista, poiché nella sua pratica performativa solitamente era lui stesso il solo protagonista.
La mostra di Torino si apre con la prima di una serie inedita di sculture e installazioni monumentali che ricontestualizzano le scenografie, i costumi e gli oggetti di scena della performance. L’opera, dal titolo Dreaming on, fast asleep, your face came to my mind. When I opened my eyes, it was nowhere to be found (2018), è composta dal letto in cui, all’inizio del primo atto, un ragazzo si addormenta sognando di poter ridare vita al teatro di Runik. Il letto è collocato sopra una piattaforma che aveva la funzione di farlo scivolare fuori dall’edificio sospendendolo nello spazio scenico. Nello spettacolo il sogno del ragazzo diventa realtà e il teatro si “risveglia” grazie al suono di quindici ocarine, mentre misteriose creature simili ad uccelli costruiscono un nido intorno al suo giaciglio con frammenti presi dalle rovine. Le ocarine, sorrette da elementi che dal letto si estendono in tutte le direzioni, sono state realizzate dall’artista sul modello dell’Ocarina di Runik, uno dei più antichi strumenti musicali mai rinvenuti nei Balcani. Un reperto dal grande valore simbolico poiché, nonostante le richieste di restituzione del governo kosovaro, rimane conservato a Belgrado presso il Museo di Storia Naturale e quindi inaccessibile ai cittadini di Runik. Centinaia di frammenti recuperati dalle macerie rimosse durante il progetto di riqualificazione dell’edificio si sviluppano in modo organico dal soffitto verso il letto. Tegole, mattoni e travi di legno dell’edificio, che prima altro non erano che inutili detriti ingombranti, ritrovano una funzione di testimonianza storica diventando espressione di una volontà precisa di ricordare il passato in un contesto in cui invece è molto forte il desiderio di rimozione. Attraverso il suo linguaggio onirico e visionario, Halilaj ha raggiunto un sorprendente bilanciamento tra il peso della storia di questi frammenti e la leggerezza fisica data dalla loro sospensione.
All’interno della Fondazione Merz, ex struttura industriale degli anni Trenta, l’artista ha poi ricostruito le proporzioni e i volumi dell’edificio della Casa della Cultura di Runik utilizzando le scenografie in legno della performance. Un’istallazione che rimanda da un punto di vista formale a quella presentata alla Biennale di Berlino del 2010. Halilaj è riuscito a mettere in relazione due edifici e due realtà molto diverse, che però rappresentano certamente un punto di riferimento per le comunità che sono nate e cresciute intorno ad esse. Il suo intervento ci ricorda non solo la centralità dei luoghi della memoria nella costruzione della nostra identità, ma anche che il loro potenziale non si limita necessariamente a una città o a una nazione, e può esprimersi in varie forme generando uno spazio di riflessione condiviso.
I sipari rossi e i fondali dipinti usati nella performance sono disposti lungo l’asse longitudinale dell’edificio e trasformano lo spazio espositivo in un palcoscenico. Su di essi si alternano le storie del secondo atto, in cui Halilaj rimette in scena dei frammenti presi da alcuni dei più importanti drammi albanesi che venivano recitati a Runik da compagnie amatoriali. I testi sono stati selezionati dall’artista per mettere in discussione questioni problematiche dell’identità albanese e alcuni dei modelli che ancora oggi ne regolano la struttura sociale. La lotta per la libertà personale e collettiva (Toka Jonë), l’educazione femminile (Cuca e Maleve), la resistenza di genere (Nita), il machismo e gli sforzi per superare una mentalità tradizionalista e reazionaria (Hakmarrja). Le storie sono talmente forti e urgenti che i sipari non sembrano in grado di trattenerle e gli oggetti di scena sfuggono per imporsi allo sguardo degli spettatori.
Dall’alto gli uccelli, sculture realizzate con i costumi indossati dagli attori a Runik, osservano tutta la scena. Gli uccelli sono un animale ricorrente nell’immaginario e nelle opere dell’artista come metafora della capacità di essere liberi e in grado di oltrepassare confini geografici e barriere culturali. In passato però il punto di partenza era spesso una dimensione personale, come i canarini che volano liberi nel suo studio o gli uccelli migratori osservati da bambino a Runik, mentre per questo progetto è stata determinante l’esperienza, all’inizio di quest’anno, della Smithsonian Artist Research Fellowship nel Dipartimento di Antropologia a Washington. Qui l’artista ha potuto esaminare centinaia di manufatti realizzati con piume di uccelli di epoche diverse e provenienti da culture indigene di tutto il mondo. Per molte di esse all’uomo-uccello erano sempre associati poteri straordinari e soprannaturali, e per questa ragione le vesti e i copricapi di piume erano riservati a personalità di alto rango come re e regine. Il titolo delle opere riprende questo dualismo legando il nome di ciascun performer che ha indossato i costumi, a un verso della canzone tradizionale che chiude la rappresentazione (You used to fly, go everywhere and wake up those who are asleep). Il testo racconta di un uccello che appare solo nei sogni. Ed è proprio questo il loro ruolo nella performance, realizzare ciò che sembrava ormai impossibile e permettere a tutti quelli che avevano smesso di sognare di tornare a farlo.
All’interno delle volumetrie del teatro sono collocati un gruppo di disegni e studi concettuali della performance realizzati su vecchi documenti trovati dall’artista nelle stanze della Casa della Cultura. Si tratta di relazioni commerciali e di fatture che facevano parte dell’archivio della Cooperativa locale, testimonianza della vita quotidiana di una società multietnica che ormai dopo la guerra non esiste più. Ad essere raffigurati sono artefatti neolitici a forma di uccello, battute prese dai copioni teatrali, studi per i costumi degli uccelli, oggetti di scena usati nello spettacolo. Questi disegni rappresentano uno storyboard concettuale della performance e un ritratto visivo della storia culturale del villaggio dove il passato incontra una nuova visione del presente. I disegni erano già stati presentatati in occasione della seconda tappa del progetto, la mostra al Zentrum Paul Klee di Berna, che costituisce il punto di contatto tra Shkrepëtima e la ricerca sviluppata precedentemente dall’artista con le opere della serie RU (2017), dedicate alla collezione dispersa di reperti Neolitici di Runik e al rapporto degli abitanti del villaggio con il loro passato.
Chiude la mostra, al piano inferiore della Fondazione, un video in cui frammenti delle riprese della performance si sovrappongono a quelle eseguite dall’artista all’interno delle rovine della Casa della Cultura prima dell’intervento di riqualificazione. Una ricostruzione soggettiva dell’azione che restituisce gli oggetti di scena alla loro funzione originaria. La partitura musicale è composta da ANDRRA (Fatime Kosumi) e Christoph Hamann, in collaborazione con Halilaj, e nasce da una selezione di suoni campionati di pietre, mattoni, tegole e altri materiali trovati tra le rovine integrati con il suono dell’ocarina.
Intervenendo direttamente sui processi di costruzione della storia collettiva della sua comunità, riavvicinandola alle proprie origini, Halilaj propone anche una riflessione universale sul potenziale dell’arte e il suo potere di trasformare la realtà. Sebbene il destino della Casa della Cultura di Runik fosse incerto, in seguito alla performance il Ministero della Cultura ha ordinato l’inserimento dell’edificio nella lista dei beni dichiarati di interesse nazionale, garantendone il futuro restauro. Partendo dalla storia di un piccolo paese apparentemente lontano da noi, Halilaj ci ricorda che solo attraverso una profonda consapevolezza del nostro passato, possiamo assumerci la giusta responsabilità per costruire il futuro.