Jungle gym
“New York è diversa dalle altre città, così come il Cubismo lo è da Cézanne”, scriveva l’artista minimalista Tony Smith nel 1954. Se le altre città si estendono sulla terra, questo il suo ragionamento, New York non conosce né terra né cielo: l’orizzonte, lo skyline, la “linea del cielo” si abbassa fino a identificarsi con la linea della città, con le guglie dei grattacieli. La città somiglia a “una griglia tridimensionale”, a una sorta di “jungle gym” precisa Tony Smith, ovvero a quelle strutture metalliche nei parco giochi su cui i bambini si arrampicano come scimmie. Lo spazio della metropoli newyorkese va pensato come totalità, come un solido costituito dai grattacieli quanto dal vuoto che li divide, come un “continuum di spazi concreti”. La griglia urbanistica di Manhattan non è tuttavia una mera struttura formale. Nell’architettura statunitense, niente ha meglio incarnato i principi repubblicani, ovvero, per citarne tre: 1) la trasparenza o “la capacità del paesaggio di favorire lo scrutinio e il discernimento da parte di ciascuno”; 2) la classificazione o “la rappresentazione visibile delle relazioni”; 3) l’articolazione o “la creazione di relazioni duttili e malleabili sul piano individuale”1. In altri termini, la griglia è portatrice di un potenziale utopico, perseguito a loro modo dalle avanguardie del XX secolo e dall’International Style, entrato in crisi col secondo dopoguerra e mai del tutto scomparso dalle pratiche artistiche, Minimalismo incluso.
Modular cube
“Sol LeWitt: Structures, 1965-2006” è il titolo della retrospettiva organizzata dal Public Art Fund di New York (fino al 2 dicembre) in omaggio all’artista scomparso nel 2007. Non si tratta di una mostra come le altre: la scenografia non è quella consueta del white cube — con cui le sculture di LeWitt hanno sempre istituito un confronto serrato — bensì quella, eccezionale, del City Hall Park di New York. Il bianco scialbo e sordo delle pareti è scalzato dai ritmi sincopati di downtown e del quartiere finanziario, a pochi isolati dalle Torri Gemelle e dal ponte di Brooklyn. La maggior parte delle ventisette sculture è installata per la prima volta en plein air, con poche eccezioni, come Pyramid (Münster), concepita per lo Skulptur Projekte di Münster nel 1987, uno ziggurat in mattoni di cemento che dialoga finalmente con il Whitney Museum, considerato da LeWitt uno ziggurat rovesciato, lontano dalla spirale organicista del Solomon R. Guggenheim Museum.
È precisamente questo dialogo tra scultura e architettura a intrigarmi. Me lo immagino sulle prime come un collage inedito tra due elementi eterogenei, le strutture trasparenti di LeWitt e il sovrastante paesaggio urbano newyorkese. Ma si tratta veramente di collage? Forse no, è un modo per raggirare una lettura più tendenziosa che fa delle prime opere nient’altro che delle allegorie della città. E l’allegoria si adatta male all’arte minimalista e concettuale, alla sua logica, alla loro matter-of-factness. Un’immagine più pertinente del collage è quella della cornice: la mostra non fa che ampliare un procedimento seriale adottato dallo stesso LeWitt, e che consiste nel mettere una forma dentro l’altra — un quadrato dentro un quadrato, un cubo dentro un cubo — ed esplorarne sistematicamente le permutazioni. Con la differenza che adesso è la sua stessa opera a essere contenuta dalla città di New York, almeno quanto la città entri a far parte delle sue opere trasparenti. Come aveva già scritto Robert Smithson nel comunicato stampa della mostra alla Dwan Gallery di Los Angeles del 1966: “One looks ‘through’ his skeletal grids, rather than ‘at’ them”. La cornice offre inoltre una buona base per rilanciare alcune domande sollevate da quest’ultima installazione: fino a che punto dar credito al rispecchiamento tra le opere e la jungle gym descritta da Tony Smith, tra griglie che sembrano distinguersi solo per essere in scala diversa? Il nuovo contenitore architettonico altera la percezione e il senso delle sculture? In che modo viene riattivato il potenziale utopico della griglia urbanistica? (Che equivale a chiedersi, in finale, se la produzione di Sol LeWitt, a cavallo tra Minimal e Conceptual Art, rilevi ancora da un’esperienza modernista.) Con queste domande riformulo a parole, e in modo approssimativo, una sensazione che, sopraggiunta durante la visita della mostra, non mi ha più abbandonato. La sensazione, ovvero, che tra le “strutture” — come LeWitt preferiva chiamare le sue sculture — e la struttura urbanistica e architettonica della città vi sia sì una reciprocità, palese almeno sul piano formale, ma anche un cortocircuito meno appariscente. Ed è chiaro che è quest’ultimo elemento a rendere la mostra intrigante. La reciprocità è innegabile, per esempio, in Tower (Columbus) (1990), un grattacielo in miniatura che dei grattacieli ha anche il colore e in cui lo scarto è dato dalla scala differente. Lo stesso vale per i richiami antropomorfi, se prendiamo il cubo modulare, matrice compositiva quanto concettuale di molte opere successive (“L’uso del cubo evita la necessità di inventare un’altra forma prestandosi esso stesso a nuove invenzioni”, The Cube, 19662), nonché cuore pulsante della mostra, con Modular Cube (1965) esposto nel cortile della City Hall. Installato a terra, con il lato che misura 1,82 metri, si trova all’altezza dello sguardo di un visitatore adulto. Per LeWitt l’altezza ideale è quella che permette allo spettatore di ricavare da sé tutte le informazioni necessarie. Non siamo lontani dal primo principio della griglia urbanistica, quello della trasparenza, ovvero “la capacità del paesaggio di favorire lo scrutinio e il discernimento da parte di ciascuno”. Solo la moltiplicazione dei cubi modulari, con le loro forme simili ad alveari o alla jungle gym, renderà più complesso il riferimento antropomorfo. Eppure LeWitt sembra scoraggiare la reciprocità tra struttura artistica e struttura architettonica: “L’architettura e l’arte tridimensionale sono di natura totalmente opposta. La prima si occupa di creare aree con una funzione specifica. Per non fallire nel suo scopo, l’architettura — che sia o meno un’opera d’arte — deve essere funzionale. L’arte non è funzionale. Quando l’arte tridimensionale comincia ad assumere alcune delle caratteristiche dell’architettura, creando per esempio aree funzionali, indebolisce la sua funzione artistica” (Paragraphs on Conceptual Art, 1967). Sebbene Clement Greenberg, fedele al canone modernista da lui stesso messo a punto, abbia sempre rinnegato alla scultura minimalista la patente di artisticità, è innegabile che qui Sol LeWitt sia plus royaliste que le roi. Entrambi infatti concordano sul fatto che una scultura non è un oggetto qualunque e che ogni confusione tra i due mina la possibilità stessa dell’esperienza estetica (modernista).
Sul filo della ragione
Facciamo un passo indietro per capire meglio su quale sentiero ci siamo incamminati. Dietro alla difficoltà di misurare esattamente i rimandi tra le opere lewittiane e New York si nasconde in realtà una difficoltà più generale e di vecchia data su queste opere che continua a dividere la critica e si può schematizzare così: illustrazioni scientifiche o immagini artistiche? Forme intelligibili o forme irrazionali? La prima linea è stata abbracciata da Donald Kuspit o, per restare in Italia, da Filiberto Menna, che insisteva sulla “sintassi logica dell’arte” di LeWitt, sul “carattere assiomatico, deduttivo, della [sua] operazione artistica”3, accostata alla grammatica generativa di Chomsky. Se altri preferiscono evocare, dati alla mano, i matematici e i fisici dell’Università dell’Illinois con cui LeWitt aveva collaborato, l’intenzione è la stessa: dimostrare che siamo davanti a illustrazioni logico-razionali che non sfigurerebbero in un manuale scientifico. La fisicità delle opere è in finale risucchiata nell’etere dell’Idea.
La seconda linea ha un discendente nobile in Robert Smithson che nel 1966 scriveva: “Extreme order brings extreme disorder. The ratio between the order and the disorder is contingent”. Nel 1968 rincara la dose: “Qualsiasi cosa LeWitt pensi, scriva o realizzi è inconsistente o contraddittorio”; “i suoi concetti sono prigioni prive di ragione”, mosse alla fine da una “logica auto-distruttiva”.
Una logica che mostra le trappole del pensiero scientifico quando abbandona il mondo delle formule e si scontra con il mondo dei fenomeni. Non siamo lontani dai racconti di Borges sulla follia che minaccia ogni progetto enciclopedico, e forse neanche dagli oggetti matematici fotografati da Man Ray, dal Duchamp di Etant donné e dal Bataille dell’Histoire de l’oeil. Questi ultimi due mi vengono in mente guardando la serie fotografica che LeWitt ha dedicato a Muybridge nel 1964, installandola come un Peep Show: attraverso degli spioncini vediamo un nudo femminile frontale, ripreso a diverse distanze fino all’ultimo fotogramma interamente occupato dall’ombelico. Il voyeurismo dello spettatore viene messo a nudo: il formato rotondo della fotografia s’identifica con l’ombelico della modella, con l’occhio dello spettatore, con lo spioncino attraverso cui l’immagine si rende visibile. È un altro modo di mettere una forma dentro l’altra, un quadrato dentro un quadrato, un cubo dentro un cubo e, finalmente, uno sguardo dentro uno sguardo.
Se le forme geometriche si inscatolano una nell’altra, possono altresì aprirsi dal loro interno. Penso agli “Incomplete Open Cubes” della fine degli anni Settanta, alcuni esposti nel verde del City Hall Park. Cubi cavi cui manca uno o più dei loro 12 lati, la serie è un’esplorazione sistematica delle 122 variazioni possibili calcolate dall’artista. Una “noncompositional composition” che risulta da una sottrazione e inaugura le forme asimmetriche. Altri esempi sono in mostra, come le “Stars” e le “Complex Forms”. Bastano questi accenni per renderci conto che la linea Robert Smithson-Rosalind Krauss è più accurata. Adottare un sistema logico rigoroso è un’operazione in disaccordo con la ragione, un modo per non pensare troppo, per illudersi che le cose vadano da sé, che la macchina svolga il suo lavoro senza troppe interferenze dell’io. Sommergere i vacillamenti della ragione sotto una messe di dati, sotto la trasparenza dei titoli delle opere, come fa LeWitt, i cui titoli suonano spesso come istruzioni fai-da-te: Three x Four x Three (1984), per citarne una in mostra. Nella sua geometria sono contenuti i presupposti creativi dell’irregolarità, un’irregolarità creata con gli stessi mezzi, con lo stesso vocabolario delle opere più sistematiche. LeWitt non ha mai conosciuto un’ubriacatura barocca alla Frank Stella, che spazia dai “Black Paintings”, vicini alla sensibilità lewittiana, alle sculture ispirate a Domenico Scarlatti. Qui risiede a mio avviso il fascino discreto dell’opera di LeWitt: la fuga dalla ragione non è facilmente distinguibile dalla sua esaltazione, dal suo compimento (“i pensieri irrazionali dovrebbero essere seguiti in modo assoluto e logico”, Sentenze sull’arte concettuale, 1969). E qui risiede, per tornare a bomba, la difficoltà di misurare i rapporti tra l’architettura di New York e le opere di LeWitt che invadono Wall Street. Se queste sono l’immagine scultorea di New York, ne costituiscono meno la rappresentazione fedele che la parodia.
Cut-out
Le strutture di LeWitt come parodia della jungle gym newyorkese — ecco un buon finale. Peccato che convinca solo a metà e sa tanto di compromesso. Forse bisogna disgiungere la scacchiera newyorchese dalla griglia utilizzata da LeWitt. Per l’artista è una matrice così diffusa — “No matter where one looks in an urban setting, there are grids to be seen” (Commentaires, 1978) — che neanche il paesaggio italiano fa eccezione, se pensiamo a PhotoGrids, un libro realizzato in occasione del soggiorno italiano del 1978 in cui ogni pagina è composta da una griglia di nove fotografie ordinata secondo un tema formale: gli elementi decorativi del duomo di Firenze, i portoni delle case e i tramezzi, le strade lastricate e i pavimenti cosmateschi, le finestre e i lucernari, le cancellate e i graticci e così via. Un libro su Firenze quanto sullo sguardo di LeWitt, qui disvelato nelle sue meccaniche più segrete, uno sguardo che resta immutato anche quando si rivolge all’ambiente domestico del suo atelier (Autobiography, 1980). Se l’Italia costituisce un buon antidoto a New York, allo stesso tempo rende possibile un accostamento per noi cruciale. Molte delle opere in mostra sono state concepite da LeWitt nel suo studio del Lower East Side, non lontano dal City Hall Park. La topografia non è secondaria, se pensiamo a una fotografia concettuale di LeWitt, una vista aerea di Manhattan con un’area ritagliata con un coltello. Il cut-out a forma triangolare non ha niente dei collage di Jean Arp, ma è ottenuto unendo i luoghi in cui l’artista ha vissuto fino al 1979. È un’opera rivelatrice, la spia che per LeWitt la geometria non funziona soltanto come un teorema o un tributo alla razionalità modernista. Che cosa rappresenta infatti il cut-out se non un’operazione chirurgica sul corpo metropolitano, una forma di sottrazione che rivela la difficoltà di serbare memoria dei luoghi in cui abbiamo vissuto? LeWitt si riappropria di queste viste a volo d’uccello, di queste fotografie aeree di un territorio che nascono come strumento militare, ne adotta la stessa precisione ma, ritagliando la zona interessata, le priva dell’intento cartografico. Quello del vissuto e della memoria è un terreno non cartografabile. Disegnando un vuoto di memoria, il cut-out agisce direttamente sul corpo metropolitano e architettonico. Della zona di Manhattan all’artista più familiare non resta che una voragine, un luogo assente dalla geografia fisica quanto mentale, dalla mappa quanto dalla memoria, dalla topografia quanto dagli affetti.
“Nothing works”
Gli artisti americani hanno spesso ridisegnato le linee geometriche che sezionano la carta degli Stati Uniti, se pensiamo a Map di Jasper Johns (1961). Eppure il primo cut-out di LeWitt del 1976 è inciso sulla mappa di Firenze, la città di Superstudio e Archizoom, quasi che l’artista si ricolleghi così a suo modo all’esperienza dell’architettura radicale. Ignoro cosa LeWitt conoscesse esattamente di questa straordinaria stagione italiana e non mi avventurerò oltre. Nondimeno, tale cortocircuito mi apre gli occhi su un aspetto del rapporto tra le strutture di LeWitt e New York che mi era sfuggito girando distrattamente quella mattina per il City Hall Park. Infatti senza spingersi fino a Firenze, a Manhattan, e in particolare a downtown, negli anni Settanta vi era una forma di architettura radicale, disseminata nelle attività di artisti, architetti, danzatori e performer che lavoravano sull’influenza delle condizioni urbane sulla vita degli individui. Se nel maggio 1974 Joseph Beuys esorcizzava traumi e paranoie — le sue personali quanto quelle proprie alla nazione americana — nel chiuso della René Block Gallery nell’East Broadway, evitando ogni contatto con il suolo americano e affrontando soltanto il povero coyote, due anni prima, nello stesso quartiere, Laurie Anderson realizzava “Institutional Dream Series”. Si tratta di una serie fotografica che la ritrae mentre dorme in diversi luoghi pubblici, una verifica del modo in cui il contesto urbano incide sull’attività onirica (è uno dei lavori esposti recentemente in “Laurie Anderson, Trisha Brown, Gordon Matta-Clark. Pioneers of the Downtown Scene, New York 1970” alla Barbican Art Gallery di Londra). Tra gli altri “sogni istituzionali” sospesi tra architettura e performance, i più immaginifici erano quelli del gruppo Anarchitecture capitanato da Gordon Matta-Clark. La prima mostra del gruppo risale al marzo 1974 e si doveva aprire con una tavola che riportava le seguenti parole: “NOTHING WORKS”4: un attacco frontale alla tirannia funzionalista e ai bisogni abitativi dell’International Style, il tentativo convulso, delirante d’inventare una nuova geografia urbana.
Sol LeWitt a Wall Street
Torniamo infine a Sol LeWitt, alla sua piazza minimalista impiantata a Wall Street, così come Giacometti ha realizzato la sua piazza surrealista con Le palais à 4 heures du matin nel 1932. Che forma prenderà una dearchitecturisation a Manhattan? In che termini le sculture di LeWitt contribuiscono al clima di sperimentazione — e di contestazione — linguistica radicale cui viene sottoposta l’architettura davanti alla spettacolarizzazione della società e dell’esperienza estetica degli anni Settanta? Possiamo pensare insieme la cavità delle strutture di LeWitt e i building cuts di Matta-Clark come due modi diversi ma complementari di operare per sottrazione? LeWitt e Matta-Clark, due “pensatori di buchi”, per citare un lavoro fotografico di Diego Perrone del 2002: un accostamento del genere diventa possibile solo ora che LeWitt invade Wall Street, che le sue strutture si confrontano con l’ambiente urbano. Sol LeWitt a cielo aperto è diverso dal LeWitt che conosciamo, dalla griglia (quale termine migliore?) minimal-concettuale nelle cui maglie continuiamo a considerarlo da quarant’anni. Un artista minimalista esposto alla temperie postmodernista, certo, ma anche un artista esposto e in tensione con la parabola di Wall Street, dal boom finanziario che ha portato alla sua costruzione, nello stesso periodo in cui LeWitt produceva le sue prime strutture, al crollo delle Torri Gemelle dieci anni fa esatti. La mancata reciprocità tra le strutture di LeWitt e la struttura urbanistica e architettonica della città, tra la trasparenza delle sue opere e quella dell’architettura di vetro è dunque più complessa di quanto sembrava. Ma tale cortocircuito ha perlomeno il vantaggio, per dirlo in poche parole, di fare delle jungle gym di LeWitt non dei teoremi geometrici ma delle opere pienamente del loro tempo. “Anche un’idea semplice, quando viene portata alle sue logiche conclusioni, può diventare caotica” (Andrew Wilson, Intervista a Sol LeWitt, 1993): difficile trovare una migliore epigrafe a queste riflessioni.
note:
1. Dell Upton, Another City: Urban Life and Urban Spaces in the New American Republic, Yale University Press, New Haven and London 2008.
2. Le traduzioni italiane dei testi di Sol LeWitt sono tratte da Sol LeWitt. Testi critici, a cura di Adachiara Zevi, I Libri di A.E.I.U.O., Incontri internazionali d’arte, Roma 1994.
3. Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1975, 1983.
4. James Attlee, Towards Anarchitecture: Gordon Matta-Clark and Le Corbusier, Tate Papers, London 2007.\