Agli ingegneri tecnologici piace propagare il mito di un mondo equo in cui la gente ottiene sempre ciò che merita.
Eliminando gli elementi più contraddittori e complessi dell’esperienza sociale tra quelli che contribuiscono alla formazione della soggettività, la tecnologia cerca di classificarci come puri e privi di complicazioni. Diveniamo riducibili, mappati da una serie programmata di tratti con significati definiti e singolari. Le nostre scelte digitali e i nostri modelli di consumo forniscono un ritratto di chi siamo. Siamo facilmente rappresentati dai nostri avatar.
È più conveniente essere universalisti, rinnegando ingiustizie strutturali, abusi di potere, l’onnipresenza del classismo, del razzismo e della misoginia. È più facile, addirittura consueto, ignorare ciò che non vediamo: trauma, depressione, malattia mentale, dolore cronico. È meno straziante ignorare come “fattori” che non possono essere compromessi, rimodellati o rifatti – come, ad esempio, l’ambiente in cui ci si trova, l’oppressione o la mancanza storica di opportunità – chiudano porte.
Nell’installazione Graft and Ash for a Three Monitor Workstation (2016) Sondra Perry (Stati Uniti, 1986; vive a New York) interpella e smonta i dilaganti assunti tecnologici sulla nostra posizione ontologica, sul nostro essere nel mondo, che pervadono i software, le interfacce e i sistemi che dominano e scandiscono la nostra vita quotidiana. Lo scorso autunno Graft and Ash è stato presentato insieme ad altre installazioni video nella prima mostra istituzionale di Perry, “Resident Evil”, a The Kitchen, New York. L’opera era scomposta in tre schermi LCD installati in cima a una cyclette, in un ambiente dipinto con una vernice per auto blu elettrica.
In Graft and Ash, gradualmente compare l’avatar di Sondra Perry; il suo viso, applicato sul modello di un volto parlante, incomincia a comunicare con noi. Il volto fluttua; sullo sfondo vediamo l’alternanza di Chroma Blue (colorazione usata nelle animazioni blue screen e nel rendering per gli effetti speciali) e un primo piano sulla pelle di Perry in 3D (così dettagliato da sembrare un mare d’oro, rosso e rosa). Per prima cosa, l’avatar ci illustra i dettagli di ciò a cui stiamo assistendo: l’allestimento della cyclette, il codice esadecimale del suo colore pantone, il posizionamento del monitor, il suono dell’oceano in sottofondo, una playlist per relax/meditazione/benessere/yoga prelevato da Youtube. La sua espressione è interrogativa e calorosa, curiosa e investigativa, guarda in basso e ci scruta – questa è l’impressione – profondamente. La testa ciondola da una parte all’altra, un po’ come se ci stesse osservando dalla fotocamera frontale dei nostri telefoni. La sua voce è rilassante ma pur sempre performativa e artificiale. Lo spettatore si distende ed è pronto a farsi cullare.
“Siamo la seconda versione di noi stessi di cui siamo a conoscenza”, inizia a dirci il volto generato sull’immagine dell’artista – “rappresentata al meglio delle sue possibilità”, con dei limiti, poiché non le è stato possibile “replicare la sua grassezza nel software che è stato usato per crearci”. Quest’immediata discrepanza suggerisce un corpo che vive al di là della videocamera e dello schermo, forzato a esistere in un sistema che non contempla la forma di qualcuno come una tipologia valida da rappresentare. Inoltre, la standardizzazione di un corpo neutrale, normale, bello, rappresenta sempre il riflesso di uno standard culturale dominante. Tutti questi modelli sfociano nella codificazione. Le persone che utilizzano questi programmi interiorizzano cos’è normale e cos’è deviazione dalla norma.
Che l’intelligenza artificiale non sia neutrale né oggettiva, e il fatto che sia priva di valori, sono congetture che si stanno finalmente diffondendo nei dibattiti in merito al suo futuro. Perry usa qui strategicamente l’intelligenza artificiale o, piuttosto, la sua simulazione, come un laboratorio per mappare come le politiche di razza e corpo siano tristemente meccanizzate. Si concentra sulla tecnologia poiché ci consente di disumanizzarci reciprocamente, appiattendo la storia della razza e il contesto politico a favore di uno spettro di identificatori possibili, come età, classe, educazione.
Spesso, le decisioni basate sugli algoritmi non sono misteriose né belle, ma banali, trite, un mezzo e una piattaforma che concretizzano la mancanza di equità. L’intelligenza artificiale è arrivata a poter prendere decisioni dall’effetto spaventoso e vincolante (chi ottiene un lavoro, una casa, un’assicurazione), potenzialmente bloccando in maniera assoluta le persone nella loro iniquità strutturale. Pare perciò imperativo mettere in discussione la pura, matematica obiettività invocata dagli ingegneri che negano addirittura la stretta relazione tra supremazia bianca e capitalismo.
In una performance di nove minuti impariamo i contorni dettagliati della rappresentazione incorporea di Perry. Sullo sfondo c’è il corpo inosservato dell’artista e il corpo nero in generale. L’avatar cambia tono, chiaro e calibrato, ma pur sempre piacevolmente neutrale: sapevamo, ci chiede, che attribuire successo a determinate caratteristiche anziché a sistemi strutturali imparziali ha un impatto negativo sulla salute delle persone nere? Le persone che “credevano fermamente che il mondo fosse un posto equo e che hanno poi esperito alti livelli di discriminazione, sono più soggette ad avere un’alta pressione sanguigna”, malattie croniche e morte prematura.
Cosa significa per un avatar chiederci di confrontarci con la persistente fallacia sociale per cui trauma e oppressione non sono visibili né reali? Il volto di Perry non combacia perfettamente con il modello precostituito dell’avatar, perciò compaiono pezzi della struttura di base. Una seconda palpebra balugina sopra ai suoi occhi, creando così l’effetto continuo di una maschera perturbante. Il fulcro, la struttura, non tiene.
Durante la sua “elaborata performance”, l’avatar fornisce espedienti che tutte le minoranze dovrebbero impiegare in una società connotata dal razzismo. Alcune recensioni della mostra suggeriscono che i “malfunzionamenti” dell’avatar siano presenti per comunicarci come si sente davvero; “esausta … ogni giorno, con voi n***i sempre addosso”. Ma le rotture sono volute, rivelando esattamente ciò che è nella mente del creatore. Lo spettatore è spinto a ricordare che questi “errori nella performance” spesso non sono mostrati nella vita reale, per paura di una punizione sociale. L’avatar di Perry sottolinea beffardamente: “non siamo così utili o caucasici come sembriamo”, rimarcando il grande compito e il peso di una performance di questo tipo. L’avatar di Perry, focalizzandosi sui sentimenti e sui malesseri nascosti, ci fa notare in maniera intelligente e indiretta quanto limitata sia la nostra idea dell’interiorità altrui.
“La produttività è dolorosa e non ci sentiamo bene”, dice. Le viene detto che dovrebbe vivere al massimo del suo potenziale ma “non abbiamo un modo sicuro”, aggiunge; esistere nel mondo è una questione di pericolo continuo. Come possiamo rendere questo rischio costantemente individuabile? Come in molti dei suoi lavori, Perry suggerisce una sorta di breve sospensione in astratto; il video si interrompe e indugia su una palla di dell’artista che ruota sopra una griglia.
Nel creare un contrasto prolungato tra chi sta parlando – la voce abbattuta, incorporea – e la violenza di ciò che viene descritto – la cancellazione e la negazione di una sofferenza psicologica – l’avatar ci costringe a pensare a ciò che non vediamo. Ci fa inoltre considerare ciò che la cura del sé non può alleviare. Maschere viso, candele e compilation di YouTube per rilassarsi possono alleviare i turbamenti, ma ci vorrà ben altro per porre rimedio all’imposizione che ci vuole dotati di un corpo bello, giusto, significativo, più minuto, più dolce, mai stanco, più allegro, più chiaro di carnagione e di tono. “Siamo un problema da risolvere, e se non lo siamo, saremo resi un problema da risolvere”, conclude.
Non presuppone che l’ascoltatore sia complice di queste strutture, chiedendo, “Quanti lavori fai? Come è il tuo corpo? Come si sente il tuo corpo dentro di noi?”. Lo spettatore considera quindi come il corpo dell’artista si inserisca all’interno di questi sistemi, all’interno di un software. Questa è una chiara e accesa critica delle industrie che cercano di proiettare l’idea di una buona salute legata alla cura personale. È un’accusa ancor più ampia al cuore dell’ideologia neoliberale e delle politiche conservatrici, che non esula le istituzioni e la società dalle responsabilità riguardanti il razzismo contro i neri, la brutalità della polizia, l’incarcerazione di massa, e chiede al contempo alle vittime di farsi carico del loro dolore come di un destino segnato, un marchio del loro stesso fallimento morale, senza possibilità di redenzione.