Ilaria Gianni: Se doveste descrivere Spazio Kor in poche parole come lo definireste?
Spazio Kor: Il nostro è uno spazio restituito. Alla piazza. Alle persone. Ai cani. Alle idee. Ai caffè. Spazio Kor è un luogo di rifugio e quiete in cui non è necessario dimostrare nulla, ci si può prendere il lusso di condividere con la semplicità e complessità che si desidera. È una chiesa sconsacrata, è spazio vivo anche quando è vuoto, ci abitano tutte le cose del passato e tutte le idee del futuro. La sua architettura accoglie, cura.
IG: Spazio Kor è un luogo che è stato riscritto molteplici volte, e dalla fine del 2020 siete state chiamate voi a riflettere sulla costruzione di una sua nuova declinazione. Quando vi siete messe in modalità di ascolto di uno spazio così pieno di storia, di persone che lo abitano (e lo hanno abitato) e al contempo così presente, cosa avete percepito e come lo avete tradotto? Il titolo che avete dato alla vostra prima programmazione è stato “Paradise”. Luogo immaginifico e lontano, spazio desiderato che simbolicamente alleggia sopra Spazio Kor e ne occupa il palco. In questo momento storico che significato ha per voi questo titolo?
SK: Con “Paradise” desideravamo che le persone potessero riempire quella parola, quindi quello spazio metafisico e non, di ciò che desideravano. Non possiamo aspettare che qualcosa si risolva nel mondo, questo tempo ce lo insegna continuamente, e davanti alle catastrofi sono così microscopiche le nostre dimensioni che non abbiamo modo di agire o cambiare la rotta dei grandi eventi. Allora, forse, possiamo provare a cercare spazi di pace, di presa in cura, perché se c’è la valanga che ci travolge noi dobbiamo imparare ad attraversarla senza resisterle e senza soccombere.
IG: E come hanno reagito alla costruzione di questa dimensione gli spettatori?
SK: “Qual’è il tuo paradiso?” Era la nostra domanda di apertura di stagione. Alcune risposte erano ironiche, altre profonde, alcune parlavano di luoghi, altre di persone. Le persone hanno lasciato molti messaggi e in questo modo, semplice e giocoso, il dialogo è partito. C’è stata molta curiosità e desiderio di conoscerci da parte del pubblico astigiano. Purtroppo la stagione passata è stata ancora molto influenzata dal Covid, dalle restrizioni così come dalle paure o dai contatti, in qualche modo sentiamo che il rapporto deve ancora trovare lo spazio e il tempo per compiersi profondamente. Ad ogni modo “Paradise” era una stagione che in qualche modo chiamava all’individualismo, ad ascoltare i propri bisogni prima di tutto il resto, ora vogliamo proseguire inventando/intrecciando/ricostruendo nuovi legami.
IG: Per “Paradise” avete chiamato degli artisti e delle artiste di cui vi interessava il posizionamento, la visione la sensibilità. Avete basato il vostro programma sul dialogo, sull’interazione di idee e discorsi critici e sulla condivisione “nel tempo”. Quale è stata la vostra intuizione e il vostro desiderio nella costruzione della comunità di Spazio Kor?
SK: Non volevamo dare niente per scontato. Nel tempo di pandemia e solitudine molti movimenti dal basso hanno chiesto una messa in discussione del sistema produttivo e distributivo del teatro italiano. Contemporaneamente molti pubblici fino a quel momento ignorati hanno rivendicato la loro presenza diventando consumatori fissi delle proposte culturali online (ne sono un esempio le persone con disabilità che grazie al digitale accedevano più agevolmente ai contenuti condivisi). Non abbiamo l’arroganza di sapere come debba essere ricostruito il mondo ma siamo estremamente consapevoli che non possiamo continuare ostinatamente a perseguire una direzione con i rami di sempre quando tutto attorno ci urla “non funziona!” Ecco, da qui abbiamo deciso che l’unico modo per ricominciare era porre domande e ascoltare veramente le risposte. Domandare cosa gli/le artistə desideravano, proporre loro uno spazio di sperimentazione leggero, non giudicante, capire come costruire un dialogo tra loro e il pubblico che non fosse la semplice presentazione di uno spettacolo, ma cercare sul territorio dove sono “gli altri pubblici”. Invitarli. Dire loro che desideriamo conoscerli.
IG: Che definizione dareste al termine “cura”?
SK: Per noi il termine “cura” non riguarda l’assistenzialismo ma, come detto prima, il dialogo. Con sé, con l’altra persona, con lo spazio, con il tempo, con la collettività. Dialogare e continuamente rinegoziare ogni cosa, la propria presenza nel mondo e quella delle altre persone, in relazione a un benessere collettivo. Noi partiamo da qui e proviamo a restare coerenti anche nel lavoro.
IG: Per comunicare il nuovo corso di Spazio Kor, avete usato termini chiari e importanti, tra cui accessibilità, inclusione, potere. Affiancare questi concetti, con tutte le complessità, è uno statement, un posizionamento profondo che ribalta la realtà, prendendo coscienza della forza potenziale dell’azione rivoluzionaria e deviante dalla strada principale. Dalle azioni piccole e comunitarie, possono accodarsi a catena soggetti diversi vedendo che “altro” è possibile e attiguo. L’attivismo, in termini di azioni sul campo, vi ha contraddistinto. Cosa ha significato per voi questo “poter fare”?
SK: La prima cosa che Giulia [Traversi] ha detto quando abbiamo iniziato a scrivere il progetto è stata “dobbiamo ripulire il termine potere”. Questo pensiero ci ha accompagnato in tutto il percorso, dalla primissima bozza di progetto alla festa di chiusura di stagione. Il Potere è diventato per noi un Poter Fare, Poter Agire, Poter Cambiare. Un potere che non consiste nel prevaricare altre persone o collocarsi in un’azione piramidale ma il potenziale che abbiamo per il semplice fatto di vivere uno spazio collettivo e quindi portare al suo interno sguardi, visioni, proposte e azioni. L’attivismo intersezionale, termine spesso complesso e a tratti abusato, ci riguarda carnalmente da molto prima di avere le parole per spiegarlo. Lavorare rimanendo coerenti e in ascolto a tutto ciò che siamo, nella sua complessa stratificazione di esigenze e fragilità, non crediamo sia una scelta ma l’unico modo possibile per lavorare, lasciare tracce che siano fertili e intanto provare a stare bene.
IG: Asti, città di provincia dove la comunità comunica e si relaziona al territorio in maniera diretta. Come è stato relazionarsi non solo con i suoi abitanti, il suo pubblico, ma anche con le sue istituzioni? E, su un altro versante, che tipo di rapporto cercate con la comunità teatrale e culturale nazionale?
SK: Arriviamo a nostra volta da realtà di provincia, anche se diverse da quella astigiana, pertanto lavorare in un contesto così diretto è qualcosa che ci appartiene profondamente. Crediamo nelle potenzialità rivoluzionare della provincia, dove sì, tutto è mischiato e vicino ma al tempo stesso anche facilmente incendiabile. I dialoghi diventano rapidamente profondi, le emotività si svelano con più precisione perché gli spazi sono meno e nella riduzione della scelta si rivelano spesso le grandi necessità, individuali e collettive. I rapporti come detto precedentemente stanno solo iniziando, abbiamo posto le basi ma speriamo di avere i tempi di frequentare i bar e i ristoranti, le piazze e i locali nell’anno che viene. Per quanto riguarda il resto del mondo, stiamo coltivando qualche progetto prezioso. Vorremmo che il fuori arrivasse qui. Che la provincia non dovesse spostarsi sempre, che il grande andasse incontro al piccolo.
IG: Quali sono le vostre visioni future, i vostri desideri, per Spazio Kor?
SK: Abbiamo tantissime idee che affollano i pensieri e i ragionamenti, possediamo una vivacità creativa molto desiderosa di esprimersi. Stiamo concludendo adesso la prossima stagione che, come la precedente, ha un tema principale intorno al quale costruiremo gli appuntamenti e presenteremo gli spettacoli degli artisti e artiste. Dopo “Paradise”, nel 2022/23 andremo al cuore di quello che ci è mancato negli ultimi due anni di pandemia: indagheremo le relazioni e la loro vita multiforme, preziosa, piena di ardore. Stiamo anche pensando al terzo anno e siamo molto felici perché riusciremo ad ospitare artisti e artiste europei che arriveranno ad Asti per portare il loro sguardo internazionale. Incrociamo le dita per il futuro!