In inglese, per invitare qualcuno a mettersi nei panni altrui, gli si dice “put yourself in his/her shoes”, cioè nelle sue scarpe. Le quattro mostre che, dopo il blockbuster inaugurale “Vertigo”, segnano l’avvio dell’attività del MAMbo all’ex Forno del Pane, sono denominate collettivamente “Step 2” — secondo passo, per continuare il gioco delle traduzioni letterali — e si aprono con una sfilza di scarpe usate, che il pubblico è invitato a indossare prima dell’ingresso. È M-path (2005-2007), un lavoro che Adam Chodzko ricrea ogni volta raccogliendo in periferia donazioni di calzature che, al termine, finiscono in beneficenza; un dispositivo poetico di eterotopia, ma anche un congegno per alterare l’equilibrio percettivo, enfatizzando l’attraversamento di una soglia. Sul confine dentro/fuori si pone anche l’altro intervento dell’artista, Hole (2007), alcuni fori in facciata, alla cui funzione allude un omonimo video ambientato in un futuro anteriore, che narra le conseguenze paradossali del successo del museo, scaturite da un’iperbole della comunicazione. Dopo le premesse analitiche del ciclo “Coming Soon MAMbo”, attuato in fase di trasloco dalla GAM al MAMbo, questa seconda tornata di personali sonda la possibilità di applicare l’eredità dell’institutional critique a un contenitore definitivo, alla sua architettura, con tutte le sue limitazioni e rigidezze. E un po’ colpisce che tutte le mostre, per quanto sviluppate autonomamente, abbiano come fil rouge delle empasse di movimento.
Diego Perrone occupa la grande aula centrale con una rampa (versione riveduta del precedente progetto per il CAPC di Bordeaux) su cui dispone “tre cose in fila in salita” — come s’intitola la sua conversazione in catalogo con i due curatori Charlotte Laubard e Andrea Viliani — cioè la metamorfica Mamma di Boccioni in ambulanza (2007), la possente Fusione della Campana (2007) e il video d’animazione Il primo papà gira in tondo con la sua ombra, la mamma piega il suo corpo cercando una forma, il secondo papà batte i pugni per terra (2006). “La salita ti mette alla prova, in una condizione ‘limite’ in cui ti accorgi più facilmente dell’errore, della distrazione. Ecco, per questo io volevo che questi oggetti fossero sulla rampa, tutti alla stessa distanza, per ‘salire’ meglio e poi da lì affacciarti a osservare il museo vuoto”.
Bojan Sarcevic, con i tre padiglioni delle sculture/film in 16mm di “Already Vanishing” (a cura di Viliani), frammenta la visione e obbliga a un tragitto lento, filtrato, discontinuo.
Felice il tocco di Eva Marisaldi — “Jumps”, a cura di Roberto Daolio — che trasforma gli spazi a sua disposizione in un percorso di dressage, con ostacoli da concorso equestre miniaturizzati, una pedana a L che riprende la mossa scacchistica del cavallo, un video in cui una percussion band robot machine se ne va a spasso sul molo di Ravenna (Porto Fuori) e Birthday Party, un teatrino dietro il cui sipario compare un robot che fa le bolle, suona lo xilofono, agita una bandierina per salutare; un dispensatore di meraviglie per grandi e piccini, modello d’intrattenimento apparentemente innocente… Ora che il museo c’è, cosa andrà in scena, e per chi?