Comprendere la ricerca di Simone Trabucchi significa percorrere una trama tesa tra diversi luoghi. Ognuno di questi è una sorgente di narrazioni e simboli, restituiti nella loro complessità sia attraverso la sua ricerca personale, che con Simone Bertuzzi, artista con cui nel 2003 ha fondato il duo Invernomuto. Alcuni luoghi sono stati il recapito di Trabucchi per determinati periodi, come via Arrighi 16, in zona Lambrate, a Milano, dove Simone realizzava le Hundebiss Nights, materializzando in una serie di serate la visione dell’etichetta Hundebiss Record, fondata nel 2007. Altri sono stati abitati solo nella finzione, come il castello di Bardi, forse luogo di riposo di Dracula Lewis, pseudonimo del suo progetto musicale attivo dal 2008 al 2014. A Vernasca, sua città natale, organizza adolescente i primi concerti; quindici anni più tardi, la piazza del paese diventa uno dei vertici di Negus, il lungometraggio a firma Invernomuto, che evoca l’eredità di Haile Selassié I tra Etiopia, Italia e Giamaica. Questo triangolo è anche il punto di partenza di STILL, il più recente progetto musicale di Simone, un’interpretazione personale della forma digitale acquisita da dub e dancehall a partire dagli anni Ottanta. Nel suo studio approfondiamo insieme I, disco d’esordio di questa nuova ricerca in uscita il 25 agosto per Pan, aggiungendo nuovi luoghi alla trama.
Ruben Spini: STILL è un’esplorazione intima di sonorità fondate e circoscritte inizialmente negli studi di produzione giamaicani. Dub e dancehall hanno vissuto una storia tanto complessa quanto fortunata, che li ha trasportati negli anni ben oltre il loro territorio di origine e la cui eco è presente anche oggi nei maggiori successi radiofonici internazionali. Cosa ti ha portato ad adottare queste sonorità per le tue nuove produzioni?
Simone Trabucchi: Quando STILL è diventato un progetto di creazione, oltre che di ricerca, ciò che ha mosso maggiormente il mio interesse è stata la possibilità di attingere a una tradizione diversa, osservando la nascita della musica elettronica come un fenomeno giamaicano, piuttosto che europeo. Al GRM di Parigi e negli studi di registrazione a Kingston accadevano le stesse rivoluzioni tecniche, indagini sull’utilizzo della voce, di effetti o di campioni. Ovviamente lo sviluppo non accademico avvenuto in Giamaica ha delle caratteristiche uniche: i suoi fini andavano oltre il puro esperimento tecnico, intersecandosi naturalmente con la musica commerciale. Ripercorrendo questa storia, ho sviluppato nuovamente interesse per la produzione: processando le varie componenti percussive dei riddim, potevo alterarne il timbro e completarli con delle melodie. Il risultato era di chiara matrice digital dub, ma il suono che avevo trovato era espressione della mia sensibilità, anche grazie agli hardware e ai software che utilizzavo. Da subito, non mi interessava assolutamente compiere un revival tecnico, ma trovare una dimensione di espressione che fosse attuale e soprattutto mia.
RS: Nel disco le tue produzioni sono affiancate da sei vocalist, residenti in Italia e originari di differenti paesi africani. Hanno background diversi e quasi tutti non sono cantanti di professione – ne consegue un’eterogeneità di contributi. Come sei arrivato a coinvolgere questi artisti?
ST: Quando è sorta la volontà di arricchire le parti strumentali con delle voci, è iniziata una lunga ricerca di collaboratori che mi permettessero di estendere il progetto senza violarne la natura fortemente personale. All’inizio volevo utilizzare in forma di sample il vocabolario che nel parlato eritreo ed etiope è un lascito dell’occupazione italiana: parole come “bomba” o “benzina”. Da quel momento il Rainbow Café di Porta Venezia è diventata una sorta di base operativa del progetto, perché centro della comunità eritrea ed etiope milanese. Era una possibilità di far procedere la mia ricerca, interfacciandomi con la realtà di quelle comunità, potendo trattare con profondità e attenzione il tema che stavo indagando.
RS: Specie quando una ricerca coinvolge biograficamente le persone così da vicino, non puoi pensare di condurla come fosse la lettura di un testo senza tradire profondamente la realtà.
ST: Esattamente, non potevo ignorare gli effetti che certi aspetti del progetto avevano prodotto sulla vita delle persone che conoscevo. Un primo cut-up venne trascritto dalla proprietaria del locale in tigrino, per farlo recitare da un ragazzo di origini eritree… Che tuttavia aveva difficoltà a leggerlo, essendo cresciuto utilizzandolo esclusivamente come lingua parlata. Questo momento ha gettato luce sulla contemporaneità che il mio lavoro poteva avere non solo nei miei confronti, ma anche nei confronti di quella comunità: mi preoccupava che potesse diventare un’indagine storica senza spazio nel presente che condividiamo. Uno dei primi collaboratori che ho conosciuto è stato Germay, un ragazzo nato in Etiopia ma adottato da una famiglia italiana, che sta ricostruendo le sue origini e la sua storia famigliare. Quando gli ho proposto di recitare per me un testo in amarico, era per lui anche l’occasione di esercitarsi con una lingua che voleva imparare, perché parte della sua storia.
RS: Attraverso la sua storia la tua indagine tornava ad essere realmente contemporanea.
ST: Sì, e lo stesso è stato per ogni altro artista coinvolto. Il mio approccio da subito non andava verso la ricerca di un vocalist perfetto per ogni singola traccia. Al contrario tutti hanno avuto modo di registrare su diverse basi strumentali, e solo più tardi ho compiuto la selezione che trovi nel disco. Condividendo la mia storia con quella dei vocalist, ho trovato un modo di elaborare il lascito del dub su un territorio che ci fosse comune, cioè Milano, in questo preciso momento storico. Questo è ciò che mi interessa anche del concetto di studio, un luogo di incontro comune.
RS: Cosa ti ha spinto a riportare l’alter ego Dracula Lewis nella bara e ad aprire il progetto STILL?
ST: Dracula Lewis era un personaggio di finzione, un alter ego che rispondeva alla volontà e alla necessità di esprimere certe sfumature del mio mondo: l’oscurità, il grottesco… Dopo anni, sono giunto a non ritrovarmi più quando cantavo sul palco – c’era un momento dissociativo in cui realizzavo di essere me stesso, piuttosto che l’alter ego che volevo impersonare – e potevo continuare la performance esclusivamente oltre strati e strati di finzione che non mi interessava attraversare. Penso che questo momento, sia a livello storico che personale, mi abbia portato ad abbandonare la creazione di storie e personaggi fittizi, a favore di un’affermazione positiva, la cui forma si è sviluppata lentamente. La musica è fatta da spazi di gioia e di esilio, ma nel momento in cui tenti di aprirli ad altri, lo studio diventa davvero uno specchio di ciò che c’è all’esterno.
RS: Mi sembra una conseguenza naturale dal momento in cui procedi per incrementi, estendendo la tua storia con quella di altre persone, condividendo uno spazio… Piuttosto che limitarti alle logiche di mercato che richiedono un singolo autore, promosso come personaggio.
ST: I momenti di crisi ci sono comunque stati, ed è stato lì che si è veramente definito il progetto, nella sensazione di non riconoscerlo più, di vederlo diverso da come lo avevo immaginato. E lo stesso è capitato ad alcuni dei vocalist, quando si riascoltavano. Con questo disco si è creato un modus operandi che sarebbe interessante ripetere, non solo con vocalist ma anche con musicisti. Una rete a maglie larghe, senza scadenze. Un’altra questione legata alla morte di Dracula Lewis era una personale irritazione nei confronti dell’espressione dell’ego, che ha molto a che fare con la produzione contemporanea di musica elettronica. Si finge che non esista la dimensione per me più fondamentale della musica, quella di condivisione sociale, anche nel momento di produzione.