Somebody help me, I’m being spontaneous!
Truman Burbank1
15 MINUTES PSYCHO
Still Life Channel è il titolo di un televisore di ceramica con una natura morta dipinta sullo schermo. La scultura è opera di uno dei cinquecento artisti in fi la lo scorso luglio davanti a White Columns, storica galleria nonprofit newyorkese. L’occasione è il casting del reality show Untitled Art Project, realizzato da Bravo TV e prodotto da Sarah Jessica Parker (la Carrie di Sex & the City). Alcuni partecipanti arrivano la notte per conquistare i primi posti. Ne rimarranno soltanto tredici!
Un progetto simile, anch’esso in fase di produzione, è presentato in Inghilterra dalla BBC. Si tratta di School of Saatchi, talent show prodotto da Charles Saatchi per scoprire il nuovo genio dell’arte britannica. Il programma prevede una vera e propria accademia per sei soli allievi, sulla falsariga di format come X Factor. Il premio è addirittura una mostra personale all’Hermitage di San Pietroburgo. Precursore assoluto di questo nuovo tipo di spettacolo, dove arte e vita si confondono, è però Jeffrey Deitch, che nel 2005 insieme ad Abby Terkuhle di MTV, l’artista Christopher Sperandio e il curatore e gallerista James Fuentes, produce Artstar per Gallery HD. Gli artisti selezionati sono otto su quattrocento. Tra i finalisti fi gurano Bec Stupak e Sy Colen, ultrasessantenne scultore della domenica e padre di Dan Colen. La giuria è composta da critici illustri come Debra Singer, David Rimanelli e RoseLee Goldberg.
Difficilmente arte e cultura sono rappresentate dai media di massa fuori dai cliché che tutti conosciamo e che Temporary Services e Maurizio Finotto raccolgono rispettivamente in Framing the Artists (2005) e Artistar (2008): ore e ore di stereotipi sull’arte in TV e al cinema. Gli art-reality, al contrario, trasmettono un’immagine più vera del mondo dell’arte, da backstage, o meglio, da community network, pronti a immortalare liti e collere di giovani disposti a tutto pur di conquistarsi i loro warholiani “quindici minuti di fama”. Tuttavia, mentre molti artisti sono impegnati a recitare la parte di se stessi, altri adottano quella che potremmo defi nire una certa “psicologia televisiva”, ovvero la consapevolezza di mettere in scena una mascherata davanti alla telecamera, perché qualcuno possa riconoscersi o riconoscerli, proprio come avviene in rete. Del resto, come sostiene Samuel Weber: “What we see, above and beyond the content of the images, is someone or something seeing”2 .
È il caso di Ryan Trecartin, giunto alla ribalta nel mondo dell’arte dopo anni di consensi raccolti su YouTube. I suoi video portano all’estremo la tensione catodica della ricerca di realtà a tutti i costi. Sono fi ction amatoriali fatte da e per adolescenti isterici. Una bomba allucinogena a base di effetti speciali carnevaleschi, colori acidi, allitterazioni e sceneggiature al limite del nonsense.
Le operazioni di Trecartin sono anzitutto delle performance e, per questo, esemplari per comprendere il modo in cui molti artisti, nati e cresciuti davanti a un monitor, si relazionano oggi alla TV. Si tratta di eventi reali, riunioni tra amici alle prese con complessi di inferiorità e deliri di onnipotenza. Le farse di Trecartin non sono atti di resistenza al potere dei mass media, bensì tentativi di dare consistenza, attraverso ritmi e modelli preordinati, a una realtà che si materializza davanti agli occhi del telespettatore, proprio come succede a Truman Burbank aka Jim Carrey in The Truman Show.
FEEDBACK GENERATION
La televisione stabilisce con il suo utente una relazione “su misura” dove il feedback è la prova concreta che uno scambio ha avuto luogo. Non è però il telespettatore a decidere di dare un feedback, come succede online o attraverso il televoto, ma è il riemergere di una sensazione legata all’immagine televisiva che testimonia l’avvenuto scambio. Bisogna ricordarsi, infatti, che “la TV non è un mezzo di comunicazione per il semplice fatto che è, invece, un comunicatore di mediazione”3.
Oggi, uno degli aspetti della televisione che affascina di più gli artisti è l’archivio e il suo legame con la storia. Alcuni recenti programmi di successo usano materiale di repertorio per risvegliare in noi una memoria collettiva, nazional-popolare. Non a caso una di queste trasmissioni si intitola La Storia siamo noi. Come sostiene Carlo Freccero, guru della TV italiana: “C’è una vita che non sapevamo di vivere e la televisione ha conservato per noi”4. Forse è giunto il momento di riprendercela, potremmo aggiungere!
Accanto al proliferare degli art-talent show, diversi artisti si misurano con una dimensione televisiva privata, ovvero con la riscrittura di modelli televisivi sui quali imprimere il proprio intervento o in cui inserire la propria presenza, nel vano tentativo di modificare la storia o almeno di prendervi parte. Open source, remix e mash up sono termini che ricorrono spesso ultimamente, sinonimo di quella tanto decantata “cultura libera” che legittima l’appropriazione indebita di fenomeni di dominio pubblico che crediamo ci spettino di diritto.
Tra gli artisti che oggi utilizzano materiale televisivo d’annata, ci sono Paper Rad e Dearraindrop, autori di deliranti cartoon dove compaiono, come in un incubo, edulcorati idoli infantili anni Ottanta, da Mio Mini Pony a Garfi eld. Le loro operazioni ci ricordano la Wonder Woman (1978) di Dara Birnbaum, uno dei primi esempi di indagine post-strutturalista su un fenomeno pop mediatico. Al contrario di Birnbaum, però, i nostri guardano ai cartoni animati non come influenza per la società, ma come vissuto.
Paper Rad e Dearraindrop si appropriano di fenomeni televisivi che avvertono come propri, come i protagonisti del fi lm Be Kind Rewind (2008) di Michel Gondry, che girano remake lo-fi di blockbuster del cinema (Robocop, Il Re Leone, etc.). Be Kind Rewind è un monumento alla cultura del VHS, simbolo di una rivoluzione tecnologica casalinga. Da Deitch Projects Gondry ha montato dei veri set, invitando il pubblico a farsi il proprio fi lm, sicuro che, come titola il libro a chiusura del progetto, “You’ll like this fi lm, because you’re in it”5.
Ma se alcuni artisti sono interessati all’entertainment, altri lavorano sulla TV come mezzo di informazione. Jon Kessler, per esempio, costruisce complicati dispositivi lacaniani: studi televisivi che lo spettatore attraversa, scorprendo se stesso in differita sullo schermo insieme a immagini estrapolate da notiziari o realizzate in diretta all’interno di mini-scenografi e di memoria Kabuki, tra inquietanti fantocci e icone di George W. Bush.
Il primato dell’intromissione nel fl usso catodico, però, spetta agli Yes Men, famigerati attivisti americani le cui gesta ricordano tanto la guerriglia mediatica di Abbie Hoffmann, Black Panthers e Raindance Corporation, attorno al ’68, quanto l’estremo gesto di Chris Burden in TV Hijack (1972). Il 3 dicembre 2004, lo Yes Man Andy Bichlbaum, in diretta da Parigi sulla BBC, si fi nge rappresentante della Dow Chemical nel ventennale del disastro ambientale del Bhopal, assumendosi per la prima volta, davanti a milioni di telespettatori, la responsabilità dell’accaduto e promettendo lauti risarcimenti alle famiglie delle vittime.
BROADCAST YOURSELF
David Joselit in Feedback dimostra come “television is a major impediment to democracy in the United States”6 e l’azione degli Yes Men prova che lo studioso di Yale non è l’unico sensibile al modo in cui i media di massa veicolano la nostra lettura della società e condizionano la storia. Se gli Yes Men mirano a elevati indici di ascolto, però, altri artisti immaginano una TV che si interessa di piccole comunità altrimenti inascoltate, che non punta allo share ma aggiusta la mira su un target ben preciso di utenti a cui dar voce.
Le origini della TV comunitaria risalgono alla Andy Warhol’s T.V. (1980-1983) e a Andy Warhol’s Fifteen Minutes (1986-1987), che tra i vari meriti vantano l’aver dato visibilità per la prima volta a omosessuali e transessuali. Sulla stessa strada si inserisce TV Party (1978-1982), dove Glenn O’Brian ospita concerti e talk show con gli artisti dell’East Village. Fenomeni più recenti, invece, sono gli Open Channels e le Telestreet: TV di quartiere rivolte a micro-comunità e visibili nel raggio di poche decine di metri quadrati.
A questa tradizione appartiene New Report (2005-2007) di K8 Hardy e Wynne Greenwood, palinsesto di taglio femminista destinato all’immaginaria emittente WKRH, in parte live dalla Tate Modern durante la mostra “Media Burn” (2007), dove le due ideatrici intervistano amici, parenti e visitatori del museo su problematiche di ordine quotidiano. Di qualche anno prima, invece, è TV Lip Synch (2002), video in cui sincronizzano le loro labbra su trasmissioni ad alto gradimento femminile.
Come Hardy e Greenwood, Alex Bag e Tamy Ben-Tor sfruttano la struttura base da set televisivo — primo piano / sfondo — in un lento processo di psicoanalisi mediatica degno di Cindy Sherman. Untitled (Project for the Andy Warhol Museum) (1996) è uno zapping di Alex Bag tra improbabili varietà, soap opera e pubblicità di cui è regista e attrice. Untitled (Project for the Whitney Museum) (2009), invece, è la lisergica rivisitazione di un programma per bambini degli anni Settanta in cui sua madre era la presentatrice.
Anche Tamy Ben-Tor lavora sull’autotrasformazione. Nei suoi teatrini dell’assurdo da “siamo in collegamento con”, possiamo vederla nelle vesti di una fanatica studiosa di Hitler, un nano ebreo o una cristiana bigotta. Facendo leva sulla dimensione grottesca dell’ipocrisia e dell’ignoranza, Ben- Tor affronta delicate problematiche relative alla diaspora, all’Olocausto e alla questione mediorientale, ponendo l’accento sul mezzo televisivo come strumento di identifi cazione culturale e religiosa.
Lynn Spigel, studiosa di Screen Cultures, sostiene: “Television seduces its audience’s faith in its realism through techniques of narration, camera work, continuity editing, sound design, staging, and lighting that make viewers believe that they are watching a live performance unfold in real time”7. Prerogativa della TV, infatti, è quella di mettere in scena non un frammento di vita vera ma un suo duplicato, come del resto fanno Trecartin o Ben-Tor.
L’opera d’arte diventa, allora, un esperimento sul feedback come momento cruciale del nostro rapporto con la TV. Il potere dell’artista, dunque, è di posizionare lo spettatore dentro e fuori dallo schermo, svelandogli il meccanismo che si cela dietro alla rappresentazione, nell’arte come in televisione, e rendendolo consapevole del fatto che, come già sosteneva Marshall McLuhan8, il mezzo televisivo altro non è che un’estensione di se stesso.