Sabrina Tarasoff: Prima di chiederti di parlare del tuo processo creativo, vorrei che introducessi i temi sottesi alla tua recente mostra “Showcaller” al Kölnischer Kunstverein di Colonia. Nudi, paesaggi urbani, mosche, capezzoli, catene: cosa accomuna questi elementi?
Talia Chetrit: Penso che la mostra si possa dividere in tre parti, apparentemente in contrasto tra loro. L’estetica e l’approccio delle fotografie nelle tre sezioni è, infatti, molto diverso, anche se tutti i lavori in mostra sono accomunati da una riflessione sull’idea di privacy.
Le fotografie della serie Streets (2015 – in corso) sono state scattate attraverso i vetri delle finestre dei piani più alti di alcuni palazzi newyorkesi, usando una lente a focale lunga. I diversi livelli che si frappongono tra la macchina fotografica e i soggetti cha camminano per strada rendono le immagini quasi astratte. Nessuno dei soggetti sa di essere fotografato e tutti rimangono abbastanza anonimi. Mi piace pensare che, in un’unica immagine, sto sia rispettando e invadendo la privacy di qualcuno.
Nella serie Sex (2016 – in corso) fotografo me e il mio partner mentre facciamo sesso in un contesto naturale e pittoresco. Sono connessa alla macchina fotografica attraverso un lungo cavo. In questi scatti ho come la sensazione che lo spettatore sia coinvolto nell’atto (e sessuale e di documentazione).
La terza parte della mostra è composta da un gruppo di fotografie in bianco e nero, raggruppate liberamente, che ritraggono momenti intimi. Ad esempio, Fly on Body (2012) coglie il breve momento di contatto in cui una mosca si posa sulla pelle.
Le fotografie delle scene di sesso, quelle di ambientazione urbana e quelle in bianco e nero sono lavori molto diversi tra loro ma spero che, assieme, possano invitare lo spettatore a riflettere sulle dinamiche legate all’intimità e a ciò che è universalmente permesso. Si instaura così un movimento triangolare che collega la fotografia, l’azione di fotografare e lo spettatore. Accostando questi lavori e mettendoli in relazione, in prossimità fisica, il processo di realizzazione della fotografia e le intenzioni specifiche di ognuno (fotografo o spettatore) vengono messi in discussione.
Nella tua ultima mostra alla galleria Sies + Höke di Düsseldorf, intitolata “POSER”, utilizzi delle fotografie che hai scattato quando eri adolescente, all’incirca tra il 1994 e il 1997. Questi ritratti di te stessa e dei tuoi amici più stretti formano un nucleo apatico – immagino siano anch’essi soggetti alla “forza centrifuga” dell’adolescenza – attorno a cui orbitano altre fotografie più recenti. Tenendo conto che la nostra è una generazione suggestionata dalla soffusa indolenza dei film di Sofia Coppola, dall’estetica di Instagram da ragazzine annoiate e dalla malinconia à la Edie Sedgwick, ci sarebbe molto da dire a proposito dell’adolescenza femminile e dei suoi legami con i social media e su come tutto ciò entra in gioco nel tuo lavoro… Ma cominciamo da qui: com’è cambiato il tuo modo di lavorare e il rapporto con i tuoi soggetti da quando hai cominciato a fotografare?
Sicuramente, nel corso degli anni, il modo in cui concepisco le immagini è cambiato molto, ma non quello in cui lavoro e il rapporto con i miei soggetti. Questa continuità credo sia visibile proprio in “POSER”, dove alcune fotografie che ho scattato da adolescente sono associate a tre autoritratti recenti. Quel che mi ha portato a rimettere in circolo quelle vecchie fotografie è stata la possibilità di indagare come gli adolescenti si rapportano alla rappresentazione della sessualità e le proiezioni degli adulti su quelle stesse immagini.
Per le fotografie realizzate appositamente per la mostra ho contattato Corey Tippin, un make-up artist molto noto nella New York degli anni Settanta, e insieme abbiamo sperimentato varie possibilità. Alla fine, non è stato molto diverso dal modo in cui io e le mie amiche da ragazzine ci preparavamo per fare le foto.
Le immagini in “POSER” sono un’interpretazione consapevolmente costruita dell’immagine di sé di fronte all’obbiettivo, in un caso da adolescente, nell’altro da adulta. Le intenzioni, i punti di riferimento e il rapporto (psicologico) con il nostro io e (fisico) con il nostro corpo si è evoluto, ma il modo di vestirsi e mettersi in posa sono rimasti simili. L’aver preso delle fotografie dal mio archivio e l’averle esposte vent’anni dopo averle scattate è un gesto specifico che diventa il soggetto della mostra tanto quanto le immagini stesse. Al tempo in cui sono state scattate, quelle immagini non sarebbero mai state mostrate; oggi, invece, verrebbero immediatamente condivise su un social network qualsiasi, esempi calzanti di quella che hai definito “estetica di Instagram da ragazzine annoiate”.
Come si inserisce il fallimento in tutto questo? In un articolo apparso su Interview è riportata una tua dichiarazione in cui affermi di considerare la tua prima mostra un fallimento, e che questo ha cambiato il tuo modo di pensare.[1] Forse a causa della tua tendenza a utilizzare il vocabolario visivo della fotografia d’avanguardia e la sua eleganza formale, il tuo lavoro ha spesso un carattere molto raffinato e anale. Ad esempio, “POSER” sembra andare a individuare spazi (o volti) di intimità nella tua giovinezza per trasportarli nel presente e riesaminarli – che di per sé può essere visto come una riconsiderazione di quello che l’intimità significava allora, e di cosa significa oggi, come affetto, necessità, meccanismo di imitazione, fantasia, o qualcosa di completamente diverso. In ciò esiste un ampio margine di errore, nonché molta opacità psicologica. Pensare al fallimento – ad esempio, lavori passati che non sono andati come previsto, o più precisamente ai limiti inevitabili della fotografia – ti aiuta a orientarti attraverso quegli spazi?
Nell’articolo di Interview di cui parli mi riferivo in particolare a come mi sentivo riguardo alla mia prima mostra, che è stata circa dieci anni fa. Ma il fallimento inteso come vulnerabilità è qualcosa a cui cerco ancora di avvicinarmi. A volte l’imperfezione è simbolo di vulnerabilità e i difetti, intenzionali o casuali, arricchiscono il lavoro. Ad esempio, nella serie Murder (1997–2017), che ho fatto quando ero al liceo e che è anche inclusa in “POSER”, ho inscenato degli omicidi con alcuni amici. All’epoca stavo sperimentando i confini della finzione, ma quello che oggi mi piace di queste foto sono proprio i loro difetti. Nella maggior parte delle immagini lo stivale della mia amica sembra che le si sia sfilato dal piede. Al tempo non avevo notato quest’imperfezione, ma oggi la vedo come una metafora delle situazioni violente che una ragazza adolescente si trova a dover sforzarsi di interpretare dalla prospettiva della sua giovane età.
Inoltre, spesso, lascio volutamente che ci siano dei difetti nei miei lavori. Mostrando i segni dei vestiti o del reggiseno sulla pelle, oppure dei “residui” ai margini dell’inquadratura, come i vestiti che i soggetti si sono appena tolti o l’attrezzatura fotografica, faccio riferimento agli aspetti temporali della performance messa in scena per la macchina fotografica. Come notavi, questi “fallimenti” pregiudicano le finzioni che sono parte del medium stesso. C’è un dialogo senza fine tra la funzione della fotografia come creazione di finzione e testimonianza.
Ciò che dici è strettamente legato ai problemi che emergono all’interno del formato biografico. Nel caso di uno scrittore che rimane bloccato davanti alla forma caotica di una vita e alla scivolosità della scrittura, il dubbio può essere gestito attraverso la speculazione (attraverso vari resoconti, attraverso il dispositivo letterario, anche attraverso quegli spazi di silenzio concessi da soggetti che sono morti oppure riluttanti alla condivisione). Quello che si può conoscere di un soggetto, e il senso che possiamo trarne, sono cose difficili da esprimere in un’immagine, ma sembrano motivare il tuo lavoro: fotografi – di nascosto – la tua famiglia; fotografi i tuoi amici; rivisiti vecchi materiali; fotografi te stessa mentre fai sesso con il tuo partner. I biografi spesso scelgono i loro soggetti perché gli appaiono in qualche modo inconoscibili. Ma in che modo l’inconoscibilità o l’impossibilità di conoscere veramente qualcuno influenza il tuo modo di pensare alla forma?
Credo anch’io che non sia possibile conoscere veramente qualcuno attraverso l’obbiettivo fotografico. Ma la presenza della macchina fotografica può sia creare che rivelare delle vulnerabilità in chi fotografo (e a volte si tratta di me stessa), dando così accesso alla comprensione.
A volte si tratta di creare una situazione in cui la possibilità di incorporare la fotocamera nel mio rapporto con il soggetto diventa una sfida. Ad esempio, per le fotografie delle scene di sesso ho chiesto a quello che al tempo era il mio nuovo partner se avesse voluto prendervi parte. In un certo senso era un tentativo di lanciargli una sfida e stimolare un suo coinvolgimento e, al tempo stesso, una relazione con il mio lavoro. Inoltre, al tempo non c’era niente di serio in ballo, perché la possibilità che queste foto venissero viste da qualcuno non era ancora stata presa in considerazione; quindi abbiamo vissuto quegli scatti come una performance tra noi due e la fotocamera.
La presenza stessa della macchina fotografica può rivelare un lato nascosto del soggetto. Un esempio di questa dinamica è emerso mentre fotografavo i miei genitori. Durante la sessione fotografica la loro interazione mi ha fatto venire voglia di filmarli di nascosto. Ho cominciato così a riprenderli solo perché la sessione fotografica avevano svelato un linguaggio di ammiccamenti a cui non avevo mai assistito prima. In Parents (2014) si vede mio padre baciare mia madre sul collo mentre lei gli domanda con civetteria: “Non sei contento che ho fatto la doccia?” Questi momenti rubati mentre ci preparavamo per le fotografie lasciano intravedere le insicurezze e i mutevoli meccanismi di potere che caratterizzano lo stare sia dietro che davanti all’obbiettivo. In questo caso particolare, la dinamica genitore/figlio era ulteriormente complicata dal rovesciamento dei ruoli di forza.
Il comunicato stampa di una tua mostra del 2015 alla galleria Sies + Höke, “I’m Selecting”, tratteggia i tuoi ritratti come se fossero degli “origine-du-monde selfies”, una definizione che credo si presti a descrivere come nel tuo lavoro la sessualità sia il risultato della convergenza di considerazioni sull’immagine del sé sia storiche che contemporanee. In molti dei tuoi primi lavori, come ad esempio Crotch (2012), in cui una forma triangolare di peli pubici viene fotografata come una specie di composizione geometrica, o anche in lavori più recenti come Untitled (Bottomless) (2015), dove usi le tue gambe per incorniciare e strutturare l’immagine, la sessualità sembra essere sottesa a un gioco di un’astrazioni formali. C’è stato un cambiamento evidente tra i tuoi lavori del 2011/2012 – frammentari, composti e più apertamente “sperimentali” – e i lavori di oggi, più fluidi e tattili. Puoi parlarmi di questo cambiamento? Si tratta solo di un’evoluzione formale, un mutamento nei tuoi interessi, oppure rispecchia un modo diverso di pensare alla sessualità e alla condizione femminile nella contemporaneità?
Mi fa piacere che tu abbia osservato la mia produzione con tanta attenzione da notare questo cambiamento. Le dinamiche e l’esercizio del potere, la sensualità e la psicologia che stanno dietro alle immagini sono sempre stati una parte importante del mio lavoro. Inizialmente riferirmi e mettere in discussione la storia della fotografia e il surrealismo era un modo di stimolare un dialogo. Ma, negli ultimi sei anni, ho scoperto che usare le specificità della mia vita privata, le mie esperienze, il mio corpo, la mia famiglia, i miei partner è una sfida molto più grande. Sono continuamente in dialogo con il mio lavoro, con le mostre e con la scrittura delle sequenze di immagini che costruisco per le mostre. Cerco sempre di espandere e mettere in discussione le idee espresse nelle mie fotografie.
Questo ragionamento ci porta ad un’altra qualità del tuo lavoro: Céline, Acne, Helmut Lang… Ammicchi a un tipo di qualità estetica che sembra avvicinarsi molto agli immaginari cosiddetti mainstream. Ma, come riesci a complicare, a interferire, o a ripensare la tua pratica artistica attraverso una lente “commerciale”? Sembra molto difficile capire che ruolo la fotografia debba assumere in un’epoca in cui la distinzione tra pubblico e privato è più confusa che mai, e in cui la gestione della propria immagine e l’auto-promozione per alcuni sono diventati lavori a tempo pieno. Ad esempio, mi chiedo cosa significherebbe mettere un logo su alcune delle fotografie esibite in “Showcaller”: come cambierebbero? Un’immagine come Streets #4 (2018) non potrebbe funzionare altrettanto bene come pubblicità di moda maschile sul nuovo stile casual dell’uomo d’affari? O Untitled (Outdoor Sex #1) (2018) non potrebbe far parte della nuova campagna di “Miss Dior” con Natalie Portman? Non lo dico per offendere o ridicolizzare il lavoro, ma per riflettere su cosa succede a un’immagine quando scivola tra quelle che T.J. Clark ha definito le nozioni di “virtualità” e “visualità”.
C’è molta poca differenza tra una foto su Instagram, una campagna pubblicitaria e un lavoro artistico quando l’immagine viene isolata e osservata a livello superficiale. Piazzandoci sopra un logo, la maggior parte delle immagini potrebbe funzionare più o meno bene come pubblicità. Una foto commerciale offre qualcosa in vendita ed è il risultato di una collaborazione tra un fotografo, un cliente, uno stilista ecc., al fine di influenzare o “manipolare” la percezione di uno specifico marchio da parte dello spettatore. In questo intento c’è una chiarezza e una trasparenza che apprezzo. Una pubblicità è un punto d’arrivo, una conclusione. Un’immagine per una mostra invece è un punto di partenza e viene osservata in un contesto particolare, all’interno di una costellazione curata di altre immagini; si spera che porterà ad aprire un dialogo e che possa incoraggiare lo spettatore ad approfondire la propria percezione del lavoro.
Che dire invece del rapporto del potere con l’intimità? “Showcaller” potrebbe designare una mancanza (forse una rêverie?) attraverso le sue distanze nebulose. Ma la tua dichiarata autorità sulle immagini, i richiami alla complicità dello spettatore nella loro costruzione, mi fanno pensare non tanto a come la fotografia in quanto mezzo funzioni attraverso quelle tensioni, quanto a come, attraverso tensioni simili, si costruisca l’intimità. Forse questo ci riporta indietro alla mia prima domanda, chiudendo il cerchio – ma tu cosa ne pensi? Se supponiamo che una parte della tua ricerca in fotografia sia diretta alla costruzione di un’intimità, allora a quale fine?
Sì, così il cerchio si chiude. Il titolo della mostra è un riferimento al mondo del teatro. Lo showcaller è la persona che dà il segnale d’attacco all’attore, quindi una figura in un certo senso autorevole, ma che alla fine non ha un vero e proprio controllo sulla situazione. In questo caso, volevo accennare all’aspetto performativo dei lavori in mostra. Lo considero un buon titolo per il mio lavoro in generale. Le situazioni che costruisco sono messe in scena per la fotocamera, ma molto di quello che ne emerge può essere visto come metaforico e rimanda all’esperienza umana nel presente. Ne nascono conversazioni sulla sovraesposizione e sulla privacy. Siamo complici del permesso di guardare, di analizzare la sessualità e di proiettare i nostri pregiudizi personali e culturali su un’immagine. Considerata la velocità con cui il mondo delle immagini sta cambiando, è importante osservare ed esaminare criticamente il modo in cui le cose si evolvono e cosa quest’evoluzione comporti.