Jenny Schlenzka: È difficile pensare a un soggetto che sia meno attraente per i giovani artisti contemporanei di quello della realtà condivisa e della possibilità della sua rappresentazione. Per me sei una dei pochi il cui lavoro continua inesorabilmente ad affrontare questa antica questione che sembra irrisolvibile. Qual è dunque il tuo interesse nei confronti della realtà?
Taryn Simon: L’alterazione come una costante: questo è il mio interesse. Solo attraverso la dissezione dell’alterazione si può andare oltre l’eventualità di un punto focale che potrebbe essere chiamato realtà.
JS: Potresti specificare meglio ciò che hai appena detto? Quali sono le strategie che metti in atto per ottenere questa alterazione?
TS: Nell’esaminare il concetto di alterazione, inevitabilmente concorrono i miei stessi livelli di falsità. Ammetto alcuni interventi in tutte le mie fotografie, sebbene non esista una formula prestabilita o una strategia. Raramente fotografo in modo preciso ciò che avviene prima di me, al contrario costruisco l’illuminazione dell’immagine, la geometria e i vari elementi per sedurre; è il testo che agisce da contraltare e ne controlla le fantasie e le diverse verità.
JS: È impressionante che di rado mostri una fotografia senza l’accompagnamento del testo.
TS: Sono interessata allo spazio invisibile che si crea fra testo e immagine, dove l’uno trasforma l’altra. Ho iniziato a utilizzare le parole scritte nel mio primo progetto, The Innocents, per cui ho fotografato uomini e donne accusati di crimini violenti che non avevano commesso a causa di un errore di identificazione. La vittima o il testimone oculare avevano riconosciuto il sospetto criminale per via dell’uso legale che si fa delle foto scegnaletiche, delle Polaroid e delle live line-up, che danno per scontato la capacità di una precisa memoria visiva. Ma messo di fronte a differenti tipi di fotografie, può accadere che il testimone oculare cambi la versione dei fatti perché ha una memoria diversa. È il caso, per esempio, di un uomo (Troy Webb) che era stato provvisoriamente identificato in una foto schedata dalla polizia dalla vittima di uno stupro, alla quale però sembrava troppo vecchio, quindi la polizia decise di mostrarle un’immagine di Troy di quattro anni più giovane e la donna lo identificò con sicurezza. È stato grazie a questo lavoro che ho potuto riconoscere l’enorme potere che ha una fotografia nell’avvalorare e creare una situazione, quindi ho cominciato a utilizzare il testo per controllare e dare un significato al contesto. In An American Index of the Hidden and Unfamiliar, la fotografia e il testo rappresentano “luoghi” inaccessibili e che non sono di dominio pubblico, inclusi la sicurezza, il governo, la scienza, la religione e l’intrattenimento in generale. Questo lavoro è stato concepito in un periodo in cui sembrava che in America si avesse un accesso limitato a precise informazioni: mentre i media e il governo erano alla ricerca di luoghi “segreti” al di là del confine di stato — si vedano le ormai famose armi di distruzione di massa —, io volevo indagare dentro ciò che è parte integrante del sistema degli Stati Uniti, compresi la sua mitologia e il funzionamento quotidiano; avevo bisogno di capire quanto lontano mi potessi spingere come cittadino privato che operava al di fuori delle strutture di potere istituzionali. E dunque, in questo caso, il testo aveva la funzione di un dato; volevo replicare le registrazioni di una recente esplorazione del nuovo mondo, quando gli esploratori infatti documentano i loro rinvenimenti attraverso disegni fantastici accompagnati da fatti reali e indicazioni scritte. Ho realizzato quest’opera mentre si percepiva che eravamo di fronte a una nuova America da un punto di vista politico, etico e religioso. Le fotografie che ne risultano fluttuano nell’astrazione e nell’ambiguità, mentre il testo rappresenta la loro àncora.
JS: Come scegli i tuoi soggetti? Sembra che tu lo faccia con estrema cura.
TS: Il 90% del mio lavoro si basa su lettere scritte, ricerca e telefonate per guadagnarmi l’accesso ai dati che mi servono, mi aiuta molto mia sorella. Trascorriamo giorni, mesi, a volte anni a cercare di raggiungere determinati accordi. Lavoro sempre al di fuori del confine americano che se possibile complica ancora di più le cose, infatti spesso dobbiamo modificare il nostro fuso orario quando stiamo cercando di ottenere l’accesso ai nostri dati, siamo obbligate a rivolgerci a traduttori che ci assistono nei nostri sforzi, dobbiamo avere stomaco per affrontare vincoli quasi proibitivi, visa, restrizioni, censura dei governi, e anche l’eccesso di bagaglio. Vivi costantemente in una sorta di caos, per esempio a causa di un tifone che ha rovinato le strade che ho avuto bisogno di percorrere nelle Filippine e ha cancellato ogni possibilità di comunicare con i miei soggetti.
JS: Qual è la molla che ti spinge a sottoporti a tutte queste tensioni?
TS: Me lo chiedo spesso nei momenti di fallimento e frustrazione. È solo qualcosa che faccio e continuo a fare. Forse è una parte che trascende da ogni controllo e ragione. Voglio confrontare il divario che c’è tra l’accesso pubblico e privilegiato e la conoscenza.
JS: Susan Sontag ha pubblicato numerosi articoli, molto famosi, contro il potere della fotografia che si pensa in modo illusorio sia in grado di rappresentare il mondo così com’è. Comunque, proprio alla fine della sua vita, ha scritto un libro in cui rivedeva questa teoria che ha avuto una certa influenza e ha ammesso che effettivamente abbiamo bisogno delle immagini. Anche se le immagini sono intrinsecamente incapaci di rappresentare la complessità dell’esperienza attuale, sono diventate parte integrante del nostro mondo tanto da dovervi ricorrere per agire politicamente.
TS: Come per il ruolo della fotografia nell’azione politica, è necessaria ma non esiste a vuoto e può facilmente essere abusata in altre occasioni. L’uso che faccio del testo limita questo potenziale e rende il mio specifico coinvolgimento molto chiaro. L’ambiguità della fotografia è una delle sue qualità che più risalta ma nell’arena politica può rappresentare un pericolo. Non a caso, la fotografia ha giocato un ruolo di fondamentale importanza nella propaganda nazista e nella rappresentazione di un allure “ideale”. I nazisti ne hanno avuto paura e l’hanno proibita al di fuori del controllo del partito quando hanno compreso la sua capacita di fare ragionare la gente. Oggigiorno il potenziale cattivo uso del mezzo fotografico è ancora più complesso, al di là della sua struttura e del contesto. La capacità di manipolare una fotografia in modo digitale rende assolutamente necessaria la questione sul suo ruolo nella rappresentazione. Non è un caso infatti che importanti istituzioni come il New York Times e la Reuters hanno ritrattato e respinto immagini che giudicavano “false”. Queste fotografie si moltiplicano come un virus e costruiscono un’evidenza del reale che ha in sé la capacità di creare un serio conflitto. Susan Sontag aveva ragione tutte e due le volte: ne abbiamo bisogno e costituiscono un problema.
JS: L’inclinazione alla tassonomia che sottintende le tue fotografie è un modo per frenare il potere illusorio della fotografia?
TS: I sistemi sostituiscono un ordine strutturale illusorio che posso imporre sulla natura radicalmente caotica e indeterminata di ogni cosa. An American Index of the Hidden and Unfamiliar ha un design molto specifico, un titolo e un testo che gli danno l’apparenza di uno studio semplice e accessibile. Ma in fondo è volutamente disorientante, salta da un punto a un altro in modo orribile: dal governo alla scienza, alla sicurezza, alla religione, fino al divertimento. Senza questo modo di procedere non mi sarebbe interessato per nulla: sarebbe stato un insieme di fotografie aperto all’interpretazione e all’immaginazione.
JS: Di recente hai lavorato a più di un paio di libri che vanno al di là di ciò che generalmente le persone considerano fotografia.
TS: Ho realizzato un progetto per Artpace, Cuttlefish, con Hans Ulrich Obrist, sull’adattabilità e l’influenza di ciò che è visuale, ma rispetto allo sforzo della mia prima e più importante “installazione” sembrava realmente quello di un biologo marino. Ho disegnato quattro cisterne identiche, sospese in un lungo e stretto alloggio bianco. Rimanendo sull’entrata di una stanza scura, molto fredda ma con la temperatura controllata, si vedeva solo la luce bianca filtrare attraverso quattro fori fatti nel soffitto. Alla base di tre delle quattro cisterne ho attaccato “la costante”, una fotografia della sabbia, mentre la base della quarta era ricoperta da una scacchiera in bianco e nero. In questa installazione, lo spettatore aveva la possibilità di vedere la seppia mimetizzarsi con la fotografia della sabbia che oscillava in alto e contemporaneamente con quella della scacchiera. La Sepia Officinalis, comunemente nota come seppia, si può confondere con numerosi sfondi grazie al controllo neurale della sua pelle. La sua strategia di sopravvivenza è l’invisibilità: alterando l’aspetto non viene intercettata dagli altri pesci predatori, qualità che la rende unica nel regno animale e che però ha reso difficile il lavoro dei biologi che non hanno compreso ancora a pieno questa sua facoltà di modificare i colori. È stato uno sforzo strano e profondamente complicato che ha richiesto un livello di mantenimento che effettivamente non si confà a un contesto artistico, perché abbiamo avuto bisogno di troppe esche di gamberetti vivi come nutrimento.
JS: Sembra un’allegoria della fotografia stessa.
TS: Lo è. Come la fotografia, la seppia manipola ed è manipolata. Rappresenta entrambi i modi passivi e attivi del travestimento. La strategia degli ordini del giorno, che usa la fotografia per l’evidenza o la propaganda, opera sotto la stessa strategia di sopravvivenza della seppia — l’invisibilità che si adatta. Ma per avere successo ciò richiede un contesto specifico. Se il contesto non è strettamente programmato, la possibilità di fallimento è molto alta. In questa particolare installazione la seppia si comporta anche da spettatore, influenzata e in via di trasformazione in risposta a un materiale artificiale (la fotografia al di sotto), enfatizzando il potere e il successo certo dell’illusione, anche in ambito biologico. Inoltre le seppie sono daltoniche, cosa che prova che l’adattabilità non rispetta un programma razionale.
JS: Cosa che ci riporta al tuo interesse per l’alterazione. “Forse questa dichiarazione è anche un’alterazione. Mi sento obbligata a dire qualcosa.”