Margherita Artoni: Cominciamo dalla fine. Oggi, i collezionisti internazionali cercano disperatamente i tuoi “fold paintings” (dipinti piegati, ndt), al punto da aver creato una lista d’attesa senza fine nelle gallerie che espongono il tuo lavoro. Parlami un po’ di questi dipinti. Come sono nati dal punto di vista concettuale? Che tipo di procedimento hai utilizzato per realizzarli?
Tauba Auerbach: I “fold painting” sono i miei piccoli tentativi di accedere a una quarta dimensione. La mia “logica” sta nel fatto che posso scardinare con successo la distinzione tra superficie bidimensionale e tridimensionale, il che implicherebbe la possibilità di abbattere i confini tra la terza dimensione e oltre. Realizzo i dipinti piegando e deformando le tele in vari modi. Di recente ho rivestito la tela con un tessuto e l’ho piegata a strati ottenendo così un effetto ondulato. Dopo che la tela ha avuto il tempo di assestarsi nella sua forma, l’ho srotolata sul pavimento e l’ho spruzzata con una bomboletta di vernice industriale, utilizzando diversi colori. È un metodo di lavoro in cui i pigmenti si attaccano alla superficie come luce radiante. Guardare il dipinto formarsi è come guardare lo sviluppo di una foto. A volte si viene a creare un effetto di luce-ombra immediato, ma di recente sto usando tre o quattro colori sui diversi angoli, mescolandoli in modo che essi abbiano un rapporto di dissonanza l’uno con l’altro. Poi passo a un rigido processo di revisione e, alla fine, la tela è completamente rigida e bidimensionale, ma conserva un ricordo quasi perfetto della sua precedente superficie tridimensionale.
MA: Come collochi questo tipo di lavori all’interno della tua carriera artistica? Noto una certa coerenza con i tuoi lavori precedenti…
TA: È un andamento progressivo, ma a volte i progetti procedono parallelamente. I “fold painting” sono nati dai “crumple painting” (dipinti accartocciati, ndt), una serie di grandi rendering di carta accartocciata dipinti in semitono. La grandezza dei puntini è calibrata affinché, a una normale distanza, l’immagine è quasi invisibile. Bisogna andare indietro, solitamente di almeno 10 o 12 metri, per riuscire a vedere qualcosa. Più ti avvicini a questi lavori, più l’immagine si appiattisce. Quando indietreggi, e lo spettatore e il lavoro vanno a formare un oggetto tridimensionale, l’opera appare ancora più tridimensionale. È come se tu mettessi in rilievo la tua posizione nello spazio: è stato questo il trampolino di lancio per i “fold painting”.
MA: Quando hai cominciato a sentire il bisogno di esplorare la componente semiotica del segno, del colore e del materiale? Hai sempre avuto questa predisposizione?
TA: C’è stato un momento molto eccitante a San Francisco negli anni Novanta e nei primissimi anni del 2000 in cui i graffiti si sono intersecati con la scena punk, e io amavo entrambi. Non sono mai stata brava con i graffiti, ma mentre i miei amici che invece lo erano si esercitavano sulla carta, io disegnavo lettere. Ho lavorato in un negozio di etichette, in cui facevo le lettere a mano. Durante il periodo trascorso lì sono passata dall’essere ossessionata dal linguaggio dal punto di vista formale all’esserne ossessionata concettualmente. Ho cominciato a pensare alle parole in maniera più profonda, cercando di capire come abbiano composto i miei meccanismi di pensiero. Questo è ciò che ho ottenuto lavorando con la semiotica e il linguaggio.
MA: A tuo parere, in che modo il linguaggio dei computer ha influenzato l’arte e la cultura contemporanee? Ti consideri un’artista dell’era digitale?
TA: Recentemente ho realizzato lavori in tessuto. Sto usando la tecnologia digitale per preparare lavori che impiegano una vecchia tecnologia analogica, che è abbastanza presente in tutti i dipinti su tela: la tessitura. Realizzo i progetti al computer, a volte tracciando immagini di seta che vengono fatte scorrere attraverso rotoli. Creo i modelli in Photoshop a bassissima risoluzione, in modo che i pixel corrispondano a quadrati fatti di lacci sovrapposti. Mi piace il confluire di vecchie e nuove tecnologie, e non credo che una sostituisca l’altra.
MA: A cosa ti sei ispirata per realizzare la serie “Static” (2008-2009)?
TA: Un giorno un mio amico e io stavamo ascoltando iTunes, e notavamo le sequenze di canzoni che indicavano, in un ordine preciso, i vari generi. Ho chiesto a un altro amico programmatore di spiegarmi questa cosa, e ne è nata una conversazione che mi ha portato a pensare al problema della casualità e alla sua evanescenza. Ho cominciato a preoccuparmi della questione della casualità e a interrogarmi sulla predisposizione umana, a vedere schemi anche laddove essi non ci sono. Nella mia ricerca mi sono imbattuta in una televisione con un “effetto neve”, che apparentemente offre l’opportunità di un’autentica casualità. Così ho scattato centinaia di foto di tv che avevano l’“effetto neve” con una pellicola 35mm. Spesso, apparivano dei disegni, ma penso che essi fossero dovuti all’interferenza con segnali ambientali. Le foto sono diventate la testimonianza di una ricerca fallita, in cui ho trovato cose utili, e non solo quelle che stavo cercando.
MA: Quando lavoravi con i numeri e le lettere, ti è venuta qualche ossessione per questi simboli? Quali sono i segni che preferisci dipingere?
TA: Allora avevo delle lettere preferite e ne ho ancora. La R, la Q e la E. Creo un nuovo font ogni anno quando faccio il mio calendario, che è il mio regalo per il nuovo anno per tutti i miei amici.
MA: Come descriveresti la tua arte? Concettuale, astratta, grafica?
TA: Con nessuno di questi aggettivi.
MA: C’è un luogo in cui ti rifugi per trovare l’ispirazione?
TA: C’è una casa speciale che lo zio del mio ragazzo ha disegnato. È stata progettata su una griglia esagonale, e tutte le pareti hanno angoli inclinati di 120 o 60 gradi. È molto bello e rilassante starci dentro, lì mi sento diversa.
MA: Di recente eri in mostra presso Glenn Horowitz Bookseller con una mostra personale dal titolo “A Book is not an X”. Vuoi descriverci il corpus di questo lavoro?
TA: Il titolo della mostra è in contraddizione con la prima frase di un saggio che ho scritto sul Grid Index di Carsten Nicolai: “Un libro è una X…”. Quello che ho percepito era che Carsten nel suo libro non voleva collocare le griglie in una singola sequenza, quando in realtà esse erano legate le une alle altre da una rete di connessioni. La maggior parte dei libri in un certo senso è come un segmento. Per la mostra ho tentato di realizzare libri che funzionavano diversamente. Molti di essi sono tomografici; si tratta di carte che puoi fendere strato per strato, come pezzi di pietra o legno. C’è un libro stampato con inchiostro bianco su pagine chiare che, una volta aperto, ti consentono di recepire tutte le informazioni del libro; un altro ha una struttura frattale, dove solo una pagina emerge dal dorso, ma quella pagina si ramifica in 11 e poi 121 e poi 1313 pagine. Ci sono libri in cui ogni pagina è uno strumento per realizzare il contenuto del prossimo. Alcuni contenuti di ogni pagina sono condivisi dalle pagine vicine, e i confini tra di loro si confondono.
MA: Lo scorso novembre hai inaugurato alla Bergen Kunsthall in Norvegia la tua prima personale in una sede istituzionale, dal titolo “Tetrachromat”. Puoi parlarcene?
TA: La mostra è basata sull’ipotetica capacità di vedere quattro canali di colori piuttosto che i soliti tre. La maggior parte delle persone, eccetto i daltonici, è tetracromatica, poiché i recettori della retina percepiscono il rosso, il verde e l’azzurro. Ogni colore visibile è la combinazione di questi tre. La tetracromia avrebbe un quarto recettore, eppure non sarebbe semplice vedere un colore in più, ma una variabile extra che contribuisce a creare un ulteriore colore. Volevo sperimentare questa visione a quattro colori proprio nel momento in cui ho cercato di migliorare lo spazio dell’immagine quadrimensionale. Alcuni dei libri che ho appena descritto sono presenti in mostra, più una serie di tre nuovi libri basati su modelli di colore spaziale. Ci sono nuovi lavori a rilievo e tessuti, e molti nuovi dipinti in cui il colore e la dimensione hanno una relazione particolarmente densa.
MA: Il modo in cui parli del tuo lavoro ti fa sembrare una persona molto meticolosa. È solo un’impressione?
TA: Sì, lo sono, ma solo in un modo molto circoscritto. Meticolosa su alcune cose e disordinata su altre. Sono sempre in ritardo, non importa quanto mi sforzi di non esserlo.