
Uno degli artifici storiografici più utilizzati in assoluto nella letteratura artistica è quello delle contrapposizioni antinomiche o dicotomie. In poche parole, per delineare meglio un concetto, una tendenza, un fenomeno si usa metterlo in contrapposizione con il suo opposto. Così, nella storia del design la nozione di modernità è stata associata alla produzione industriale e conseguentemente contrapposta a quella di tradizione identificata nella manifattura artigianale. Quindi, quella tra moderno/industriale in grande serie versus tradizionale/artigianale in piccola serie è una dicotomia prevalentemente basata su un’impostazione ideologica; per comprenderlo, basta andare a vedere cosa avviene oggi (e direi da sempre) nella ricerca scientifica. La tecnologia più sperimentale, infatti, nasce sempre artigianale e solo in un secondo momento viene industrializzata. Infatti, nel mondo contemporaneo si sta lavorando sempre più a modalità produttive che integrano metodi artigianali e industriali, creando sinergie che di fatto superano le stesse barriere disciplinari, spesso più definite da ideologie che da fatti. Nel campo aerospaziale, o in quello dei materiali ultraperformanti (come, ad esempio, le fibre di carbonio) le conoscenze tecno-scientifiche e quelle manuali artigianali si integrano perfettamente. Per questo penso sia il tempo giusto, oggi più che mai, per parlare di “Techno-Craft”, inteso come via di integrazione tra le parti e superamento delle dicotomie. Inoltre, è proprio questa la ricerca che avrà anche importanti ricadute sul profilo ecologico nei prossimi anni: l’uso di materiali che possono sostituire con le loro performance funzionali ed estetiche materie prime naturali in via d’estinzione è una via che molte aziende e designer stanno perseguendo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito sempre più a ragionamenti sulle strategie produttive che tengono in considerazione il cambiamento climatico e l’emergenza ecologica. Tuttavia, accanto a progetti seri di denuncia dello status quo e proposte alternative di produzione, si è affermato in parallelo il fenomeno del greenwashing. Quasi in contemporanea l’attenzione all’artigianato si è spesso evidenziata come una sorta di facile alternativa ai mali dell’industria, tanto che il rischio nell’associare produzione e artigianalità è quello di cadere in un altrettanto lesivo effetto di craftwashing. In entrambi i casi si tratta di strategie di comunicazione e marketing che banalizzano quanti stanno facendo seriamente ricerche e cercando vie di migliore impatto sull’ambiente o – sul fronte artigianale – di riscoperta di metodi produttivi di maggiore controllo, autenticità e radicamento con le storie locali. La filiera corta e trasparente della produzione pre-moderna e pre-industriale è una modalità che può assolutamente essere perseguita ancora oggi, senza necessariamente coincidere con retoriche di primitivismo o con utopiche decrescite dei consumi, basate sulla morale del singolo e la sua autocoscienza. Ma allora, cosa c’entrano i patinati artigiani delle pubblicità dei brand del lusso con la riflessione sui metodi di produzione non industriali ed ecologici? Proviamo a fare un passo laterale.
Il mondo del cibo ha affrontato ben prima di quello della moda e del design una battaglia che si è concretizzata nel movimento Slow Food alla fine degli anni Novanta. Senza entrare qui in questioni troppo ampie per il nostro ragionamento, pensiamo al fatto che l’importanza delle piccole coltivazioni, della tutela delle DOP e DOCG, del km 0, dell’agricoltura biologica e biodinamica sono ormai conoscenza comune. Più banalmente, se fino alla prima metà degli anni ’90 mangiare biologico era una missione quasi iniziatica, da setta alimentare (che impegnava nella ricerca di produttori locali scarsamente distribuiti e in un esborso notevole di soldi rispetto a quello della grande distribuzione), a partire dagli anni 2000, grazie alla conoscenza diffusa da Carlo Petrini e seguaci, una nuova consapevolezza si è diffusa e con essa anche il reperimento delle materie prime è diventato più agevole. Diviene così di dominio pubblico che scegliere questo tipo di consumo alimentare ha valenze etiche, economiche e sociali che divengono conseguentemente anche politiche. I piccoli produttori alimentari e i coltivatori diretti sono una realtà oggi seguita da molti utenti.
Volendo prendere questo come un esempio, potremmo assimilare ad esso fenomeni similari in altri campi: nella moda, quello della dimensione sartoriale (che non è l’alta moda) e nel design, quello “editoriale”, ovvero in serie aperte, ma di numeri che dipendono dal mantenimento del livello della qualità. In tutti questi casi la riduzione di scala delle serie ha condotto a una rivalutazione del modello produttivo artigianale. Ma attenzione: qui non si tratta di un artigiano nostalgico o luddista, bensì di un artigiano-produttore attento ai mezzi tecnologici, all’aggiornamento degli strumenti che comprendono ovviamente l’integrazione tra quelli manuali della tradizione e quelli digitali più innovativi. La filiera corta di questa tipologia produttiva è l’unica sulla quale poter garantire una reale trasparenza etica, basata sulla conoscenza di tutti i passaggi: dal reperimento della materia prima, alla sua trasformazione, arrivando spesso fino all’utente finale. Produttori e progettisti lavorano a stretto contatto, se non spesso addirittura coincidono nella stessa figura, quella dell’editore. Che si tratti di libri, dischi, radio, oggetti o mobili, l’editore è colui che sceglie la propria linea di produzione in edizione aperta, decidendo di collaborare con menti creative e professionalità specialistiche. L’artigiano-editore contemporaneo assomiglia molto a quello del passato: troppo spesso dimentichiamo che ogni epoca ha avuto il suo grado di aggiornamento e d’informazione. Così come che da sempre l’artigianato ha conosciuto soprattutto le serie aperte e di grande numero e, solo raramente, quelle limitate o i pezzi unici. Spesso, infatti, una storiografia ideologica ha voluto far coincidere l’artigianato solo con l’alto artigianato e i mestieri d’arte solo con il lusso. Eppure, per millenni l’artigianato è stato seriale e meccanizzato, con mezzi volti alla moltiplicazione dei numeri di produzione, senza però rinunciare alla qualità. Il divario creato con la rivoluzione industriale sui numeri e i conseguenti compromessi sulla qualità hanno generato come contro-altare il mito dell’artigianato di lusso ed esclusivo. Il che si è sposato alla perfezione con la strategia del craftwashing applicato da molti marchi alla ricerca di una presunta esclusività e autenticità tutte da vendere.
Esiste un bellissimo esempio che racconta di quando sia nata la dicotomia di cui stiamo parlando. Siamo nel 1921, dentro il Bauhaus e il brillante studente Marcel Breuer ha creato la Sedia Africana. È stato fortemente influenzato dalle teorie esoteriche e animistiche del suo professore Johannes Itten e ha collaborato per la parte tessile della seduta con un’altra straordinaria studentessa, Gunta Stohlz, destinata a divenire una delle più grandi textile artist della storia. Quella sedia parla di una produzione antica, di un valore che va oltre la praticità d’uso e la funzionalità di un modello di consumo ripetibile all’infinito identico alla sua matrice. Ma è un modello che in quella scuola – che doveva essere la fucina della forza motrice produttiva della nuova Germania – non vince. Anzi, perde platealmente: Itten verrà allontanato dalla scuola, Breuer diverrà celebre per aver progettato la modernità del tubolare metallico, il verbo internazionale e razionalista che identificherà il progresso del consumo. Lo stesso Breuer realizzerà con i suoi colleghi un cortometraggio con la storia della sedia in una dimensione di evoluzionismo darwiniano dell’arredo, in cui la Sedia Africana è l’inizio – quasi come un primate in posizione non ancora eretta –; il punto di approdo sono la Wassily e la Cesca, nel loro brillio metallico; e l’ultimo atto è una sedia invisibile, smaterializzata, raffigurata da una modella che siede su “colonne d’aria”, come il progettista stesso avrà a dire.
Oggi quella linea del tempo potrebbe aggiungere un nuovo tassello con una collezione progettata dallo studio Formafantasma e presentata presso l’ICA al Fuorisalone di Milano 2024 in una mostra dal titolo La Casa dentro, curata da Alberto Salvadori. Protagonisti del progetto sono una serie di arredi la cui struttura richiama esplicitamente i tubolari metallici tipici del Razionalismo (fortissima la reminiscenza dello stesso Breuer), che vengono completati da apparati tessili di tutt’altro linguaggio e provenienza formale, un chiaro richiamo a dimensioni decorative intime, materne, pre-moderne, o che vanno oltre lo stesso Movimento Moderno, e che si annunciano in aperta revisione della cultura mascolina dei diktat del Modernismo. La decorazione ingenua e antica, artigianale e accurata non ha niente di superfluo o frivolo, come avrebbe tuonato un Loos; ma neanche di ironico e kitsch, come avrebbero voluto i post-modernisti.
Parla di un bisogno interiore, molto profondo, di cura e accudimento, che va appunto oltre il genere e la disciplina e che ci riguarda tutti, indistintamente.