Nella prima parte, si è argomentato che lo sviluppo di posizioni “avanguardiste” in arte — nelle quali la pratica del fare arte si lega in maniera particolarmente densa e programmatica ad una dichiarazione di principio circa il senso, la possibilità e i modi di tale pratica, che assume forme teoriche ambiziose e tendenzialmente universalistiche — tende a concentrarsi in momenti nei quali si assiste a una evoluzione profonda delle modalità socio-economiche di produzione dei contenuti culturali. Lo sforzo totalizzante dell’avanguardia può essere così visto come un modo per “mettere ordine” in un flusso di mutamento che mette in discussione assetti per lungo tempo consolidati, e per individuare dei possibili punti di riferimento nello spettro di nuove possibilità che viene ad aprirsi. La grande esplosione dell’avanguardia modernista coincide con il passaggio dal modello della Cultura 1.0 e quello della Cultura 2.0, ovvero con il passaggio da una modalità di produzione basata su forme di committenza di natura prevalentemente mecenatistica a una basata su un’ondata di innovazione tecnologica che rendeva possibile il progressivo sviluppo dell’industria culturale: una discontinuità che operava soprattutto dal lato della domanda, vale a dire espandendo notevolmente la possibilità di raggiungere un pubblico sempre più vasto, ma mantenendo allo stesso tempo nettamente separata la dimensione della produzione dei contenuti culturali da quella della fruizione. Oggi ci troviamo ad assistere a un nuovo passaggio, quello dalla Cultura 2.0 dell’industria culturale alla Cultura 3.0 delle piattaforme collaborative aperte, nel quale l’ondata di innovazione crea nuove, potenti modalità di produzione e distribuzione dei contenuti al di fuori del raggio di azione del mercato (e cambia di conseguenza la nozione di diritti di proprietà intellettuale sui contenuti stessi), e agisce stavolta dal lato dell’offerta, rendendo sempre più complessa e sfumata la distinzione tra produzione e fruizione di contenuti, e facendone evolvere di conseguenza le forme di riconoscimento sociale.
Che tipo di forme avanguardiste tendono a svilupparsi in questo nuovo contesto? La mancanza di una centralità geografica e culturale qual era quella che caratterizzava i luoghi di incubazione dell’avanguardia del primo Novecento, unita all’eccezionale impulso alla diversità culturale apportato dal modello delle piattaforme aperte, produce come conseguenza una proliferazione di posizioni molto distanti, ma accomunate dall’intento di ridefinire dalle fondamenta il senso e le pratiche del fare arte. È interessante notare come, nell’ambito di questo comune atteggiamento di fondo, approcci estremamente diversi nello spirito e nei loro obiettivi specifici tendono a richiamarsi ad una formula comune, quella della New Aesthetics — probabilmente per segnalare questa aspirazione alla definizione di un codice che sia, allo stesso tempo, nuovo e intrinsecamente collegato alla dimensione del fare arte. In questa seconda parte, prenderemo in esame uno di questi approcci, quello che fa riferimento al critico e teorico anglo-cipriota Michael Paraskos. L’approccio di Paraskos potrebbe essere, ad uno sguardo superficiale, confuso con uno dei tanti nostalgici tentativi di restaurazione di un’arte fondata sulla rappresentazione, sulla manualità dell’artista intesa come capacità di mimesi illusionistica del reale. E in effetti Paraskos insiste molto sulla dimensione fisica dell’arte, e sul corrispondente rifiuto totale del concettualismo non tanto in quanto pratica in sé, quanto piuttosto appunto come pratica fondante del fare arte. Ma a un esame anche di poco più approfondito si comprende come l’operazione di Paraskos non sia un tentativo di ritorno alla “bella pittura” — non a caso, tra le sue preferenze rientrano posizioni artistiche astratte quanto figurative — quanto piuttosto la necessità di confronto con un processo fisico di produzione che riporta l’attenzione sui dati sensoriali: la forma, il colore, la dimensione, tutti elementi che nel canone recente vengono generalmente rifiutati in quanto “estetici”, ovvero in quanto legati a modalità contingenti e relativamente inessenziali di traduzione del Concetto.
L’atteggiamento avanguardista di Paraskos è chiaramente illustrato dal suo metodo di lavoro, che prende le mosse addirittura da una serie di 75 aforismi prodotti nell’ambito di una scuola estiva tenuta nella cittadina tedesca di Irsee assieme all’artista Clive Head, che ne è co-firmatario. Gli aforismi di Irsee, raccolti in un pamphlet edito, come i successivi, dalla piccola casa editrice Orage Press ed etichettato come Part one of the New Aesthetics, presenta una curiosa mescolanza tra statements teorici molto ambiziosi, bizzarri motti di spirito, ironia anti-concettualista e autentici nonsense (come l’aforisma finale, Beware the Swiss bearing sausages). I successivi pamphlet presso Orage Press, Table Top Schools of Art e Is Your Artwork Really Necessary?, corrispondono a loro volta alle parti due e tre della New Aesthetics, che quindi si presenta come un vero e proprio corpus in divenire, e che si oppone senza compromessi (e senza risparmio di violenza polemica) al mainstream concettuale contemporaneo.
Nella visione di Paraskos, l’arte deve produrre mondi possibili e persuadere il suo interlocutore della propria esistenza, come l’enciclopedia immaginaria di Borges: “what is important is that the artist establishes a lucid and coherent alternative reality through their [sic] art”, scrive in Portrait of the Artist as a Terrorist, uno dei saggi pubblicati nella terza parte della New Aesthetics. E il riferimento al terrorismo non è casuale: l’arte raggiunge il suo scopo quando stabilisce un rapporto eversivo con la realtà preesistente: “when an artist does this, regardless of subject matter, then they [sic] are challenging the precepts on which existing reality is based. It is this that kills existing reality and establishes a new set of truths”. Per raggiungere questo scopo, le scelte contenutistiche non sono importanti: la realtà può essere ugualmente uccisa dipingendo un mazzo di fiori piuttosto che gli orrori della guerra. Ciò che conta è il come, non il perché. Ciò che fa più metodologicamente orrore a Paraskos è la macchina celibe duchampiana (non a caso, è a lui che riserva le considerazioni più spietate e liquidatorie): l’arte è arte in quanto feconda i sensi dell’osservatore, di fatto cannibalizzandolo — a proposito del lavoro pittorico di Thomas Scheibitz, per il quale esprime profondo apprezzamento, Paraskos dice per esempio: “[whereas] abstract art that dominated American modernism…actively discouraged viewers from imagining themselves into their painted spaces, Scheibitz goes to the opposite estreme and seems intent on forcing his viewers to fall into his work”. A Paraskos non interessa solo la storia dell’arte, ma anche quella del fare arte, appunto, come recita l’aforisma 26: “The lack of a history of making art stunts the progress of art”. L’arte come processo fisico, sensoriale, tanto nella sua produzione che nell’esperienza che offre di sé: “Art is always a sensous act. It is the expression of the aesthetic experience of existence. Aesthetics in art means ‘the sensuous’” (aforisma 22).
La dimensione processuale che interessa Paraskos diviene evidente nell’analisi del lavoro dello stesso Clive Head, i cui dipinti apparentemente iper-figurativi e basati su una tecnica illusionistica di derivazione fotografica sono in realtà il risultato del complesso montaggio mentale di centinaia di fonti (elementi dal vero, immagini fotografiche, ecc.), di una molteplicità estrema di punti di vista che riprende uno dei metodi più noti della più nota delle avanguardie storiche, il cubismo, evitando però qualunque allusione linguistica (le immagini di Head non si prestano a nessuna associazione evidente con la pittura cubista), ma di fatto replicandone la pratica di costruire l’immagine attraverso una vertiginosa sovrapposizione spaziotemporale: “the image…is fabricated from many different sources of information as the figure in the painting was not derived from a photograph at all, but drawn from life, and whereas the coffee shop is located in London’s Piccadilly, the model sat for Head in his studio”. Il valore del lavoro di Head per Paraskos sta nel fatto che egli non soltanto va oltre la rappresentazione, ma lo fa proprio attraverso l’illusione della rappresentazione: “Head shows us scenes that do embody more than the eye can see, but through images that mimic the way we see”.
Per Paraskos, il punto non sta nel compiacere lo spettatore, e nemmeno nel prendersene gioco, ma nel coinvolgerlo sfidandolo, nel portarlo oltre dopo averlo attirato con certezze illusorie. Ciò che Paraskos non perdona al concettualismo è la sua autoreferenzialità, il considerare lo spettatore un accidente, un elemento sacrificabile del sistema, e quindi di fatto un non-interlocutore. In questo senso, il suo approccio teorico non è soltanto avanguardistico, ma definisce una posizione legittima all’interno del paradigma in via di definizione della Cultura 3.0, in quanto non considera la processualità dell’esperienza artistica una vertigine mentale o un efficace espediente retorico, ma un fatto fisico, evidente, riscontrabile nella sua materialità, e non tanto in termini di “far fare” allo spettatore, quanto piuttosto di ingaggiarlo nel senso del combattimento, del portarlo dentro il campo di forza dell’opera: “the artist has to persuade the viewer that the reality they [sic] show is true” (aforisma 29). Ammaliare lo spettatore è per Paraskos un atto generoso, lontano dall’aridità ritentiva della macchina celibe concettuale: “Art should astonish its viewer, but most art is too mean-spirited to do this” (aforisma 15).
Il mainstream è quindi destinato a trovare la sua nemesi in un apparente “ritorno al passato” dell’opera “fisica” che però nasconde una imprevista complessità logico-sensoriale e una nuova etica del rapporto con il pubblico, che mira a riconciliare quest’ultimo con l’arte contemporanea senza offrirgli vie di fuga consolatorie? È questo il percorso verso il futuro possibile dell’avanguardia del primo XXI secolo? Ne parleremo nella prossima puntata.