James Graham Ballard (Shanghai, 15 novembre 1930 – Shepperton, UK, 19 aprile 2009) ha esercitato una forte influenza su Tacita Dean. L’artista ricorda l’amico scomparso e l’ossessione comune per un’opera d’arte nello Utah.
La prima volta che scrissi a J.G. Ballard fu a proposito di Donald Crowhurst, il navigatore solitario che sparì in mare nel 1969, dopo il fallimento della sua impresa: girare il mondo in barca a vela senza effettuare soste. Ero appena tornata da una spedizione fotografica sul trimarano abbandonato di Crowhurst, nell’isola caraibica di Cayman Brac, quando inviai a Ballard una delle fotografie chiedendogli cosa ne pensasse. Il nome Crowhurst, se non altro, suonava come quello di uno dei personaggi dei suoi romanzi. Ricevetti una lettera di risposta su carta intestata Shepperton con quella particolare calligrafia che sarebbe diventata a me familiare. No, Ballard non nutriva particolare interesse per Crowhurst e lo considerava un pazzo; ma la sua barca sembrava uno di quegli aeroplani sfasciati della Seconda Guerra Mondiale che ancora si ritrovano nelle giungle delle isole del Pacifico, come lui pensava si trattasse.
Oggi, a distanza di tempo, capisco perché Ballard non avrebbe potuto avere niente a che fare con Crowhurst. Avendo cresciuto da solo i suoi figli, non avrebbe approvato l’abbandono della famiglia da parte di Crowhurst, né avrebbe compreso il suo livello di delusione personale e di fallimento. Gli esperimenti psicologici di Ballard si concentrarono altrove; la pietà non lo interessava. Non mostrò mai compassione per nessuno dei suoi personaggi.
La mia amicizia con Ballard era iniziata un po’ di tempo fa, per via dell’interesse che avevamo in comune per l’artista americano Robert Smithson. Nel 1997, andai alla ricerca della famosa Spiral Jetty (1970) e del Great Salt Lake nello Utah, che avrebbe dovuto ospitarla. Ottenni alcune indicazioni via fax dallo Utah Arts Council, che supposi fossero state scritte dallo stesso Smithson. Sapevo cosa cercavo unicamente grazie ai ricordi delle lezioni a scuola: l’iconica fotografia dall’alto del molo a spirale in basalto, che si allarga sulla superficie di un lago. Non ho mai trovato quel molo: era stato sommerso, oppure non lo stavo cercando nel posto giusto. Ma quel viaggio mi segnò profondamente e realizzai un’opera sonora sulla mia impresa. Ballard doveva aver letto di quest’opera, perché mi spedì un breve testo che aveva scritto su Smithson per il catalogo di una mostra.
Fu lo scrittore, curatore e artista Jeremy Millar che si convinse che Smithson conosceva il racconto di Ballard intitolato The Voices of Time prima di realizzare Spiral Jetty. Tutti i libri che possedeva Smithson erano stati catalogati dopo la sua morte, avvenuta in un incidente aereo nel 1973, e The Voices of Time era tra quelli. La storia si conclude con lo scienziato Powers che costruisce un mandala di cemento o un “gigantesco codice cifrato” sul fondo prosciugato di un lago salato in un luogo che sembra essere, secondo la descrizione, ai confini della civiltà: un orologio cosmico che fa il conto alla rovescia del tempo dell’umanità. Non è una sorpresa che sia proprio una copia di The Voices of Time quella sotto la mano dell’uomo addormentato sul telo da pic-nic nelle sequenze iniziali di Powers of Ten, il classico cinematografico di Charles e Ray Eames del 1977 sulla relatività dello spazio nell’universo.
Smithson aveva compreso la preistoria del luogo in cui aveva realizzato la sua opera. Alcuni pensano che in fondo al Great Salt Lake vi fosse il centro di un antico universo, e Spiral Jetty avrebbe potuto essere il raffinato strumento che, penetrando in profondità, avrebbe permesso di raggiungerlo. Intuendo tutto ciò, nel testo di quel catalogo Ballard scrisse: “Quale nave potrebbe essere ancorata a Spiral Jetty?”. Inoltre, in una lettera successiva mi scrisse: “Secondo me la nave da carico era un orologio, di un tipo davvero speciale. A loro modo, tutti gli orologi sono dei labirinti, e addentrarvisi potrebbe essere rischioso”. I due uomini avevano molto in comune e Ballard considerava Smithson l’artista americano più importante e affascinante del dopoguerra. La mia ricerca sul tempo, cosmico e umano, futuro e passato, e sul presente, ha Ballard al suo centro.
Una volta disse che gli sarebbe piaciuto essere un pittore, e la sua vicinanza all’arte era davvero stretta. Aveva amici artisti, incluso Edoardo Paolozzi, ma ciò che amava particolarmente era il Surrealismo. In occasione di un’intervista con il critico d’arte William Feaver dichiarò che una delle cose che più ammirava in Salvador Dalì era il fatto che “il buon gusto non lo avrebbe mai più salvato”. Ballard era un uomo del suo tempo, ma anche fuori dal tempo. In un’altra intervista, rilasciata dopo la pubblicazione di Miracles of Life, sottolineò che, alla fine degli anni Quaranta, gli Inglesi si comportarono come se avessero perso la guerra, anziché averla vinta; questo pessimismo aveva contribuito al diffondersi di un Modernismo British, se così possiamo definirlo, non funzionale, privo di ottimismo, poco significativo per l’arte inglese, fino al momento in cui il Pop non portò una qualche novità.
Credo che la visione distopica di Ballard ebbe presa sulle generazioni successive alla sua, quelle che avevano trascorso la loro infanzia in grattacieli di recente costruzione e già in declino, nei sotto- e sovrapassaggi degli edifici degli anni Sessanta. La Pop Art può averci dato la libertà di usare gli scarti che provengono dalla vita di ogni giorno, ma Ballard ci ha consegnato il linguaggio estetico dell’entropia, in particolare quello che appartiene allo spazio pubblico, all’autostrada o al complesso industriale. Sebbene avesse dichiarato che le sue descrizioni appartenevano al presente e non al futuro, la loro profeticità è inquietante: che un giorno Londra possa essere sommersa dalle acque non sembra più un fatto così improbabile, e che la catastrofe sia imminente è, come sappiamo, un’affermazione verosimile.
A Ballard piacevano le mostre. Egli stesso ne progettò un certo numero, compresa quella che includeva delle macchine distrutte, allestita al New Arts Lab di Londra nel 1970. Scriveva spesso sulle mostre e ne era un assiduo frequentatore. Come dichiarò in un’intervista rilasciata ad Hans Ulrich Obrist, la mostra rappresentava per lui non un’esposizione di opere d’arte, ma una radicale dichiarazione sull’immaginazione umana, al pari della neuroscienza e della fisica nucleare. Per Jimmy, come avevo finito col chiamarlo, la mente umana era una mostra che visitava con piacere.