Margherita Artoni: Dalla mostra “An Epitaph for Civil Rights and Other Domesticated Structures” presso la Galleria Kavi Gupta (Chicago) la tua carriera, in meno di un anno, ha spiccato il volo. Come stai vivendo questo enorme successo?
Theaster Gates: Sento che devo lavorare di più ora. I vecchi progetti sono diventati l’anticamera di nuovi e più ambiziosi progetti. Le opportunità in gioco cambiano e mi ritrovo così a trascorrere molto tempo riflettendo sul rapporto tra opportunità, responsabilità e libertà. Il successo sicuramente non era l’obbiettivo. Essere impegnati a perseguire questa serie di semplici ideali è stato il mio obbiettivo. Ho anche guadagnato un po’ di soldi che sto cercando di sperperare!
MA: Cosa ti porta a indagare il confine tra arte e architettura?
TG: Non esiste alcun confine tra arte e architettura. Sono fatti della stessa materia. Ciò che è stato interessante è cercare di considerare a che punto l’arte e l’architettura si allontanano l’una dall’altra. La produzione e la riproduzione di uno spazio è una parte enorme del mio lavoro. Credo che la nostra mancanza di considerazione di uno spazio astratto significa che il lavoro che noi immaginiamo è a volte limitato al primo piano e allo sfondo. Con l’inserimento di uno spazio reale, l’architettura, la città, e la politica costruita lì dentro si crea spazio per una pratica artistica più complicata. Complicando il nostro concetto di cornice, i contenuti al suo interno possono anche diventare più complicati. In questo modo, la produzione a sorpresa di spazio diventa il nucleo della mia pratica artistica.
MA: Come definisci il filo rosso che lega Dorchester Projects e Huguenot House all’ultima Documenta a Kassel?
TG: Che bella sensazione non avere questo peso! Trova un castoro che costruisce dighe in Oregon e mettilo nelle acque di Haiti. Quel castoro farà ciò che sa fare. Il bosco può cambiare e forse anche il terreno, ma in un certo senso quel che accade a Kassel è totalmente coerente con il mio progetto. Che consiste in questo: come immaginare un’amicizia politica e culturale direttamente connessa agli spazi che abitiamo? Come prevediamo il bisogno umano di celebrare, riunirsi, riflettere e amare mentre anche il lavoro di immaginare è esso stesso opera d’arte? In questo momento, quando le cose sono in flusso e la natura della pratica artistica è più una domanda che una dichiarazione o un manifesto, io dico che questo è esattamente il momento in cui costruire Dorchester, Huguenot House: luoghi per la musica, nuovi musei, palazzi o luoghi di culto e comunità. Ci saranno sempre altri lavori in dialogo con la storia e con l’arte nel mondo occidentale, e possono essere letti come interventi discreti all’interno della cornice, ma c’è spazio per un’espansione che la pratica anticipa e stabilisce la giusta posizione al centro dell’impegno politico e culturale e non ai suoi margini. Ecco, il margine non deve più rimanere liminare nel suo pensiero, nel suo diritto di occupare qualsiasi posto nei sistemi di ordine e disordine a cui uno ambisce. Il mio progetto non è né su Dorchester né su Kassel. È sul desiderio profondo di essere umani ed essere connessi agli altri e produrre senso al di là del concetto di potere.
MA: Manichette antincendio, cemento, catrame, ceramica, riviste e altri materiali di uso comune incarnano l’intero universo della tua produzione artistica. Quali sono i principi dell’Arte Povera a cui senti di aver aderito maggiormente?
TG: Possiamo condividere un materiale comune e forse alcune credenze sulla struttura, ma i contesti sono totalmente diversi. Non è sufficiente allineare i materiali, anche se questo è qualcosa di interessante sul concetto di “minimalismo” che le persone riconoscono nel mio lavoro. Il modernismo non può essere ridotto a linee e a una sensibilità visiva. È la politica che li compone con cui sono in dialogo. Se un team di designer negli anni Cinquanta doveva pensare a cosa fare con le fabbriche che erano usate per produrre macchine da guerra e decide di produrre sedie, tavoli e divani per le persone che ritornavano dalla guerra, devo fare la domanda: cosa fare con Detroit, Cleveland o Stoke On Trent? L’Arte Povera era riuscita a inventare certi momenti addirittura a rischio di uscire fuori da quello che può essere stato un ambiente molto più ostile per l’opinione artistica. C’è da dire che, non solo c’erano le ragioni per fare qualcosa di diverso, ma l’atmosfera stessa era molto diversa. Finalmente una domanda che non è sulle specificità o sulla geografia, ma sul rapporto con i movimenti!
MA: Per rimanere in questo ambito, puoi parlarci un po’ degli altri movimenti artistici del passato che hanno contribuito a dare forma alla tua creatività?
TG: Mio padre era un riparatore di tetti. È stato lui a ispirare del mio primo movimento artistico. Con lui ho imparato come usare uno scopettone. Lo scopettone carico di catrame era molto più pesante del mio stesso peso così dovevo usare tutto il mio corpo. Diventò una sorta di performance in cima al tetto insieme alla mia passione per il bitume fresco. È vero che più tardi ho conosciuto persone come Rirkrit e Dan Peterman e Michael Rakowitz che hanno entrambi influenzato enormemente il mio lavoro, ma anche Kerry James Marshall. In molte circostanze, sto ancora capendo l’importanza dei situazionisti e di Fluxus e come queste cose influiscono sul mio lavoro. Ingrid Lilligren e i vasai californiani detengono probabilmente il posto più grande nel mio cuore.
MA: Vivere a Chicago ha influenzato la tua visione artistica?
TG: Io so che voglio stare qui e che stare qui sembra essere una responsabilità oltre che un piacere. Chicago è inoltre una città molto umile e vivibile. So che il mio lavoro è cresciuto perché c’era spazio, consigli esperti, amanti dell’arte e persone incredibilmente capaci. Sto crescendo perché qui c’è una stanza in cui crescere.
MA: Quando sei nel mezzo della produzione di un lavoro ci sono degli elementi di sorpresa o hai già un’idea chiara su quello che sarà il risultato finale?
TG: Il lavoro è sempre in svolgimento e raramente so cosa un lavoro sarà nel suo complesso. Ho lavorato sodo per immaginare strutture che mi aiutino ad arrivare a idee che sono importanti. Io non mi lamento troppo perché nell’istanza della creazione il gesto è ancora abbastanza importante. Ci sono anche situazioni in cui, poiché tu hai a che fare con persone reali e contesti reali, devi semplicemente aspettare le prossime mosse oppure puoi rompere le palle alle persone. Un aggiustamento costante.
MA: L’intento politico dei tuoi progetti è ben espresso nella tua recente personale “My Labor is my Protest” presso White Cube (Londra), che esamina l’idea di lavoro come una forma di protesta alternativa. Cosa volevi trasmettere connettendo la cultura e il lavoro con la stupefacente installazione Raising Goliath?
TG: Raising Goliath, che colloca otto tonnellate di ebano, Life e Jet Magazine raccolte dalla Johnson Publishing Corporation’s come contrappeso per sollevare le quattro tonnellate di un camion dei pompieri, è stato il mio tentativo di dimostrare il valore di un tipo di lavoro culturale, considerando anche come il lavoro nero sia cambiato dopo l’era dei diritti civili. È la mia impresa più difficile, ma rispecchia anche il mio desiderio di materializzare alcune di queste associazioni molto sfumate in relazione allo spazio razziale e al potere politico nero. Volevo che la galleria stessa diventasse una sorta di santuario per questi manufatti culturali. Questo spazio di 35 mila metri quadrati creato per il consumo culturale dovrebbe essere trasformato in uno spazio di trasmissione culturale. Resta un progetto molto speciale per me e io sono grato al team di persone che mi hanno aiutato a realizzarlo.
MA: Hai spesso definito la tua arte una pratica rivoluzionaria. Quale è secondo te il ruolo dell’artista nello scenario contemporaneo?
TG: Io in realtà vorrei astenermi dalla parola rivoluzionaria per quanto riguarda la pratica. Lo penso davvero. Alcuni progetti e impegni potrebbero richiedere un particolare tipo di rigore, ma quella roba non si sentirebbe tanto rivoluzionaria come sembra necessario. L’artista deve continuare a essere il veggente di ogni generazione. Con i dittatori intorno, la volontà di vedere e comportarsi in modo diverso resta un’occasione per l’artista.
MA: Il tuo desiderio per il futuro.
TG: Voglio vedere ancora mia madre.