Matthew Schum: I tuoi lavori trasudano energia, mentre la tua sensibilità visiva comunica intensità. In che tipo di ambiente sei cresciuto in Svizzera? C’è qualcosa nella tua educazione che possa spiegare la ferocia della tua arte?
Thomas Hirschhorn: Nulla, al di là del mondo che mi circonda, può spiegare l’intensità e la corposità del mio lavoro. Non c’è nulla di “personale”, perché non sono interessato all’aspetto personale o “sociale” dell’essere artista; al contrario mi interessa la vita, il sogno, il cambiamento, l’azione e la speranza. Voglio interpretare l’arte come uno strumento da utilizzare per affrontare il mondo, la realtà, per vivere nel presente. Voglio che il mio lavoro sia il riflesso della bellezza e dell’incommensurabilità, della complessità e del caos, della crudeltà e dell’infinitezza del mondo.
MS: Io sono cresciuto a Minneapolis, dove nel 2006 hai realizzato, per il Walker Art Center, l’installazione Cavemanman e dove pensavi di creare — in Lake Street, il quartiere alto della città — un gigantesco libro; il progetto però non è andato a buon fine a causa delle ristrettezze del budget. Mi auguro che tu possa portarlo a termine in altre città con le giuste energie e circostanze.
TH: Il “Road-Side Giant-Book Project” che avevo proposto nel 2004 come intervento di arte pubblica al Walker Art Center in realtà non è stato ancora realizzato. Quello che mi piace di Lake Street è che ti potresti trovare ovunque, in un’altra città, in un altro paese o in un altro continente: Lake Street a Minneapolis/St.Paul è un luogo universale, e questo progetto, come tutti gli altri, non solo tende a essere universale, ma potrebbe addirittura essere pensato per un’altra città, un altro paese, un altro continente.
MS: Ti faccio queste domande perché mi sembra che il tuo lavoro abbia una forte connessione con il paesaggio, sia che si tratti di un paesaggio urbano che di una caverna. C’è qualcosa che trascende il sublime e irrompe nello spettatore, come se fosse un contenitore virtuale in cui la gente si ritrova a fluttuare. Confondi o metti in connessione intenzionalmente ciò che è artificiale e ciò che è sublime?
TH: Il mio lavoro non è mai site specific o pensato per uno specifico contesto. Quando ti senti fluttuare, è perché io desidero renderti partecipe, coinvolgerti direttamente — faccia a faccia — attraverso il mio lavoro. Non come parte di un “circolo di esperti” ma come parte di “un pubblico non esclusivo”: non esiste infatti un pubblico “esclusivo” nei musei o per la strada, così come non esiste in una galleria commerciale né in un’istituzione. Intendo lavorare per un “pubblico non specifico”, che non rappresenta un target.
MS: La Svizzera è un paese splendido, molto ordinato e con un benessere estremo. I paradossi e le responsabilità dell’essere un artista svizzero famoso all’estero sembrano parte integrante dei tuoi lavori più interessanti.
TH: “Artista svizzero”: non so cosa significhi questa definizione, ma sono svizzero e sono un artista, il che è diverso. Non c’è alcun paradosso nell’essere svizzero e artista, perché non tutti gli svizzeri sono banchieri o orologiai! E per quanto ne sappia, non tutti gli americani sono cowboy o astronauti. Ci sono artisti in tutto il mondo, e suppongo che il palestinese sia felice di essere un artista quanto lo sono io, che invece sono svizzero. Grazie all’arte, tutti noi abbiamo la stessa responsabilità: fare il nostro lavoro con amore, passione, perseveranza, forza, per riuscire a essere in contatto con la realtà e per affrontare in prima persona ciò che stiamo facendo. Credo che l’arte sia universale e universalità vuol dire giustizia, uguaglianza, verità; come artista credo che l’arte abbia il potere della trasformazione.
MS: Il tuo progetto “Swiss-Swiss Democracy” al Centro Culturale Svizzero di Parigi sembra confermarlo; non a caso hai scritto “voglio de-idealizzare la democrazia e destabilizzare la buona coscienza democratica”. Secondo te l’arte può rivolgersi in maniera adeguata alla democrazia?
TH: Non lo pensavo nel 2004 o nel 2005, durante gli anni di “Swiss-Swiss Democracy”. Gli eventi più recenti ci mostrano invece che è necessario lottare per la democrazia ogni giorno, dobbiamo reinventarla ogni istante, lottare per e con la democrazia costantemente: non possiamo fermarci e credere di averla conquistata. Voglio essere democratico, ma mi rifiuto di diventare un soggetto democratizzato. Lo scopo di “Swiss-Swiss Democracy” era di ergersi a democratico e non di assopirsi come un soggetto democratizzato. Il mio obiettivo era quello di interrogare la democrazia in quanto istituzione, confrontandola con una mia libertà produttiva, viva, incerta, creativa, precaria, democratica e divertente. Ho fatto tutto ciò per due mesi di seguito al Centro Culturale Svizzero a Parigi: ogni giorno con la sola linea guida di “Presence and Production”. L’ho fatto con il filosofo Marcus Steinweg e con il regista teatrale Gwenaël Morin, più sei fra attori e attrici. L’arte può rivolgersi alla democrazia — ma non adeguatamente — perché non esiste il concetto di adeguatezza, e anche perché il rapporto tra arte e democrazia e arte e politica è complesso; eppure l’arte può inventare un suo modo di rivolgersi alla democrazia e alla politica.
MS: Una volta hai detto che “Swiss-Swiss Democracy” non era una provocazione, ma era riferito ad alcuni tagli ai finanziamenti dell’istituzione. Si tratta di un’azione molto specifica rivolta a problemi universali. Pensi che in questo momento storico stiamo assistendo all’atrofizzazione delle istituzioni democratiche?
TH: Innanzitutto, sai che il definanziamento punitivo dell’istituzione è stato abbandonato dopo un anno ed è stato ristabilito quello precedente? Anche i politici che lo avevano votato in seguito hanno dovuto prendere atto che la loro “punizione” è stata infantile! È importante che tutto ciò sia reso noto, citato e ricordato. Ma il problema in sé getta luce (e credimi non era mia intenzione) sul fatto che l’istituzione della democrazia sia paragonabile a una “vacca sacra”, qualcosa di intoccabile, e mi chiedo come questo sia potuto accadere e come abbia potuto generare soggetti democratici. Sono convinto che i tunisini, gli egiziani, i libici e tutti gli altri popoli che aspirano alla democrazia non la percepiscono come un incubo, ma come un sogno di libertà, libertà di espressione, uguaglianza, giustizia. Gli svizzeri hanno ottenuto queste cose combattendo e lottando qualche centinaio di anni fa e, per quanto riguarda la parità di voto fra uomo e donna, solo qualche decennio fa! Questo tuttavia non spiega come, anche in un paese democratico come la Svizzera, il processo democratico in realtà non sia mai stato portato a temine.
MS: Il tuo lavoro più recente, Too Too – Much Much (2010) al Museum Dhondt-Dhaenens — un titolo straordinario, oltre a essere un’opera di grande qualità —, era di per sé controverso in seno alla tua stessa produzione. Come hai recuperato tonnellate di lattine di alluminio riciclato e a cosa mirava il lavoro?
TH: Ho utilizzato l’alluminio come medium per anni (fin da Cavemanman). Adoro i materiali con cui lavoro; li adoro perché li scelgo per me stesso! Inoltre, decidere qualcosa significa pagare il prezzo di tale scelta. È questo che intendi per “controverso”? Il mio amore non si basa su un sentimento kitsch, narcisistico e autoriferito ma sulla convinzione che i materiali sono intrinseci a un’opera d’arte e la scelta di un materiale è essenziale.
MS: Non posso collocarti tra Andy Warhol e Joseph Beuys. Sono curioso, però, di capire come definiresti il tuo lavoro e a quali precedenti artistici ti rifai costantemente.
TH: Personalmente non voglio di certo etichettare il mio lavoro! E, sopratutto, non mi guardo indietro! Ciò che voglio, e credo sia un’ambizione legittima per un artista, è creare una nuova definizione d’arte, una definizione personale e che dia forma a un corpus critico.
MS: Senza voler essere troppo specifici, si potrebbe dire che il tuo lavoro si pone al centro del Triangolo delle Bermuda tra Pop, Minimalismo e Arte Povera. C’è una relazione teatrale o fisica tra lo spettatore della tua opera che ha assonanze con il Minimalismo, una prima fase decostruttivista del Pop e la dissipazione dei materiali tipica dell’Arte Povera. Questa combinazione scatena una sorta di gigantismo che irrompe nell’ambiente invitando il pubblico a entrare nel tuo mondo. Hai la sensazione che i tuoi ambienti guidino lo spettatore verso il mondo esterno?
TH: Non ti seguo nel tuo “Triangolo delle Bermuda”, né posso commentare il tuo approccio storico. Non ho la percezione che al di fuori del nostro mondo ci sia qualcosa di fantasmagorico. Quello che voglio fare è creare una forma. Baso il mio lavoro sulla forma e su un punto di forza che si divide in due parti: Amore e Filosofia, Politica ed Estetica. Con ogni opera che realizzo voglio toccare una di queste parti e non è importante che siano equamente rappresentate, ma è fondamentale che ne facciano parte. So che fuori dalla mia forma e dal mio campo di forza, l’Amore e la Filosofia sono ovviamente gli aspetti migliori; ma ho deciso di toccare con consapevolezza anche la Politica e l’Estetica, che hanno un lato oscuro e vengono percepite in maniera più negativa. Ciò che voglio è entrare in contatto con gli aspetti negativi e non rendere le cose migliori di quello che sono. Sono una persona assolutamente positiva, ma credo sia molto importante comprendere che questa positività non esclude ciò che è negativo. Questa è la mia idea di mondo, un unico, solo mondo. Ed è quello che desidero esprimere con il mio lavoro, che vuole rivolgersi a uno spettatore sovrano ed emancipato, uno spettatore che non viene influenzato dai fatti, dai commenti o dalle opinioni.
MS: I tre movimenti appena citati sono immanenti per gli artisti contemporanei, specialmente per coloro che si sono dedicati alla scultura. In che modo pensi sia cambiata la maniera di lavorare dopo gli anni Sessanta con i materiali presi dalla vita quotidiana? E come vedi questo cambiamento in anni più recenti?
TH: Non riesco a seguirti in questo approccio storico-artistico. Sono un artista che fa il suo lavoro, che realizza e costruisce un corpus critico; non posso analizzarlo e al tempo stesso dargli forma. Ma non ho smesso di lavorare! Voglio continuare a farlo, insistendo, e continuerò a sperimentare la mia passione per l’arte, oggi.
MS: Dal 2003 al 2008 hai smesso di esporre il tuo lavoro nel tuo paese. Che cosa è cambiato da allora in Svizzera?
TH: Penso che non sarà più possibile eleggere un Consiglio federale come quello eletto dall’Assemblea federale nel 2003. Mi sono opposto solo al Consiglio federale svizzero (senza implicarne altri), che non è stato rieletto dalla stessa Assemblea quattro anni dopo nel 2007. Non penso sia possibile eleggere un Consiglio federale sulla base del fatto che è meglio averne uno “interno al sistema” piuttosto che uno “esterno”! Sono conscio che non è una vittoria definitiva: devo, dobbiamo tenere gli occhi aperti; non dobbiamo abbassare la guardia per evitare atteggiamenti razzisti, o per non fomentare la paura nei confronti dello straniero e chiuderci in noi stessi; so che io, io stesso, posso fare qualcosa. Posso riuscirci con successo. Ci credo e sono pronto a pagarne il prezzo. E sono certo che tutti i boicottaggi saranno validi finché avranno dei risultati.
MS: All’ultima Biennale di Venezia hai portato una sorta di ritorno alle origini?
TH: La mia casa è l’arte e non l’ho mai lasciata. Il mio passaporto è svizzero e non l’ho mai cambiato.
MS: Questo lavoro va in qualche modo a toccare il sostrato della realtà svizzera?
TH: Spero profondamente che il mio lavoro metta a confronto diverse realtà e lavorerò duramente per questo. Le realtà universali — se lo sono veramente — riguardano anche la Svizzera. Presentare, o meglio, rappresentare la mia opera è un piacere per me, perché quello che mi rende felice è sperimentare il mio ruolo di artista contemporaneo.