Gabriele Naia: Mi sembra che la tua pratica pittorica punti costantemente a trovare un equilibrio tra razionalità e disguido, ordine ed entropia. Cosa mi dici a proposito?
Tiziano Martini: In effetti le azioni che compio, e alle quali sottopongo gli strumenti pittorici, hanno intenti e sembianze razionali e ordinate, ma sono spesso dettate da eventi accidentali. Il risultato finale non coincide praticamente mai con l’intenzione di partenza, e può differire molto (visivamente) da quello del lavoro precedente. Per essere più precisi si tratta di processi, privi di ritualità, che non hanno quasi mai il medesimo approccio di partenza. Questo è ciò che conta realmente. I lavori ottenuti producono immagini che palesano errori o oggetti svuotati della funzione originaria, e manifestano una certa fallacia del medium piuttosto che una condizione di stabilità. Il fatto che certe composizioni suggeriscano un senso di equilibrio credo sia legato a una suggestione visiva. Ma si tratta di un concetto subordinato rispetto alla processualità intrinseca della mia pittura.
GN: Mi soffermerei sulla fallacia del medium e sui limiti che le tue immagini palesano. Di che tipo di limite si tratta, e in che senso secondo te il medium pittorico può essere fallace?
TM: Mi interessa quando certe azioni, svolte con massima perizia, manifestano dei limiti. A volte vanificano operazioni di ore. Altre si rivelano superflue, allora il lavoro viene distrutto, e grazie a questo esso assume caratteri interessanti. Il supporto invece non ha questi limiti, a volte una tela tesa è già di per sé un oggetto vicino alla perfezione. Un tessuto a grana fine preparato in modo universale decide la distribuzione o l’assorbimento del colore sulla propria superficie. Anche il telaio stesso, l’oggetto più subordinato in assoluto, ha un suo potenziale intrinseco oltre a una funzione ben precisa. Come certi formati verticali standard, che io prediligo per le loro proporzioni. Queste variabili mi interessano perché rendono il supporto già di per sé un oggetto molto estetico e decorativo, e diventano complementari nel momento in cui ci si vuole avvalere della pittura intesa come mero strumento — non per produrre immagini verosimili o per costruire forme illusorie.
GN: Direi che ti interessa la grammatica della pittura. O meglio, del supporto pittorico. In generale mi sembra una visione del medium molto pragmatica, anziché fallace. A ogni modo, trovo che il tuo approccio analitico a volte collida con la presenza di tracce, più o meno volontarie. A cosa rimandano queste tracce? A una presenza umana che si tradisce, all’azione del tempo o cos’altro?
TM: In virtù del fatto che il supporto è un oggetto quasi perfetto, il mio intervento si riduce a un gesto simile al versare del latte sulla polvere di cacao per farne una bibita. Sono i risultati a essere semmai fallaci, non perché più o meno piacevoli, ma per la presenza di miei errori che appaiono inaspettatamente. In questo senso il medium non è per niente fallimentare, ma lo è la mia azione. L’approccio non è analitico, ma eventualmente ludico. Non c’è però un punto di partenza così delineato. L’azione parte e poi collide con situazioni filtranti, che pongo tra me e il supporto, come lo scotch ad esempio. Ma non ci sono strumenti migliori, colori preferiti, prove di abilità, ideologie, situazioni intimistiche. I lavori sono totalmente autonomi da me, registrazioni grafiche/pittoriche di attività di riempimento, piuttosto che di abrasione, o mal utilizzo degli strumenti ad esempio. In pratica quasi delle cristallizzazioni di necessità performative, durante le quali io stesso sono uno strumento. Nei lavori attuali, rispetto a quelli precedenti, non ci sono pretese narrative o proiezioni di me stesso, e nemmeno contenuti pretestuosi.