Toni Negri di

di 2 Maggio 2017

Gian Marco Montesano: Esiste ancora oggi la possibilità di definire l’arte con una qualche oggettività? Differenza, funzione, sovrappiù, insomma che cos’è l’arte?

Toni Negri: Ho sempre pensato che l’arte sia produzione, produzione di essere. Quando riorganizza dei materiali attorno a un’attesa, attesa di qualcosa di aperto, l’arte si manifesta come accadimento inaspettato e nuovo. In questo senso, l’arte non è una differenza, quanto un sovrappiù.

GMM: L’odierno “sistema dell’arte” sembra però riflettere più il mercato che le istanze etiche.

TN: Se l’arte non è una differenza ma un sovrappiù, non ha nulla a che vedere con il mercato. Il “fenomeno artistico” attraversa però il mercato come attraversa la società, e non si tratta di dire che il mercato è irrilevante se è ancora una forma in cui si esprimono i rapporti sociali: infatti, se è vero che la novità non è riducibile all’insieme, è altrettanto vero che l’insieme deve fare i conti con questa novità. Dentro questa situazione agisce un paradosso creativo. L’arte è un rapporto: la società cambia e il vero resta sempre uguale; questa invarianza consente di qualificare un fatto artistico come qualcosa di nuovo. Sentiamo il bello come vero e nuovo, e nel contempo lo sentiamo come universale. Ma è questa singolarità ripetuta dell’universale che lascia sbalorditi. Il Postmoderno, in quanto condizione generale e non stile artistico, dev’essere valutato come un depotenziamento verso il grado zero nella circolazione dei significati sociali che conduce verso il massimo dolore, la massima insignificanza dell’esistenza. È qui che il problema del vero e del bello artistico si pone come capacità di rottura, come momento di fusione tra dolore e potenza dell’essere.

GMM: La condizione di post-modernità, persino drammatica, che emerge dal tuo pensiero è distante dall’immagine del Postmoderno esibita dal sistema dell’arte, dove l’esperienza individuale è sdrammatizzata e l’esperienza della singolarità resta sorda alla percezione del dolore.

TN: Tradotto nei termini della tradizione marxista, il Postmoderno è l’epoca della sussunzione reale: la società è diventata fattore di produzione capitalistica, perciò tutti gli elementi sono intercambiabili nelle funzioni di valorizzazione. Proprio questa intercambiabilità sembra “sdrammatizzare” l’esperienza della singolarità. Postmoderno significa per me anche una sorta di Romanticismo del XX secolo nell’esaurimento dei valori collegati a una società capitalistica progressiva. Questo però, in termini economici (sussunzione reale) e socio-culturali (l’esaurimento del potenziale d’espressione nelle due culture del capitale, borghese e socialista), nasconde nuove dimensioni che attengono alla società di comunicazione. Ma qualcosa di tremendo sembra spezzare la similitudine tra questo secolo e il Romanticismo che si esprime proprio nell’arte. Nel Romanticismo l’arte era la scorciatoia del vero, oggi invece i sentieri non portano alla verità ma a un labirinto continuo. Tuttavia, e in questo resto marxiano, credo che non si debba fare della crisi una malattia cronica: l’umanità si pone solo i problemi che riesce a risolvere; il problema in sé è una dimensione, una tensione. Perché, ad esempio, una situazione complessa, dunque ricca di possibilità, è avvertita come irresolubile e la sua determinazione, la complessità appunto, viene usata contro la produzione di verità? Da questo punto di vista, la nascita di un’individualità arricchita dalle relazioni che le si sviluppano attorno costituisce già un elemento di eticità nuova. Ma rimaniamo occultati dalla solita tartuferia ideologica che fa della complessità una prigione. Un giudizio sull’arte di questo presente d’esaurimento, ma anche di nascita, non ha senso se non avverte la necessità duplice di rendere coscienti i passaggi della crisi e nella ricerca delle anticipazioni.

GMM: A questo punto si pone la questione dell’attualità e l’inattualità dell’arte.

TN: Proprio l’inattualità, nella misura in cui ti fa attraversare la tragedia della non realizzazione, impone l’essere. Ci chiediamo cosa sarà l’arte perché ci domandiamo cosa ne sarà del mondo dopo che la nostra capacità di prevedere la Storia su ritmi di sviluppo lineari si è esaurita. Il ritmo lineare di costruzione del mondo si è bloccato in una situazione tremenda perché ci ha portato ai margini della distruzione del mondo stesso, ma formidabile perché ha esaurito quel paradigma di sviluppo tecnico che conoscevamo fin dall’inizio dell’industrializzazione, lasciandoci orfani in questo maledetto secolo. Secolo talmente inattuale che è stato per metà ripetizione del XIX e per metà qualcosa che non sappiamo ancora cosa sia. L’arte, ad esempio, si è sempre manifestata come il contrario della banalizzazione, mentre oggi si manifesta in forme ripetitive. Comunque i punti di scontro ancora esistono: vi è infatti chi interviene sul mercato come poliziotto o sacerdote di certi modelli del bello e li rende manieristici e banali. Ecco il nemico, e di conseguenza la guerra.

GMM: Guerra che fonda un discorso di verità.

TN: Sì, un discorso aperto a un altro di “democratizzazione dell’arte”. Coniugare un termine screditato come democrazia all’arte che, malgrado tutto, mantiene una dignità, rende l’idea della condizione umana. Questo mi fa pensare al mutamento del rapporto con l’arte che i ragazzi avevano in galera, dove Flash Art arrivava normalmente. Io credo a questi vecchi miti d’avanguardia, di circolazione orizzontale della bellezza, e tra le misure di un pacchetto rivoluzionario vedrei la restituzione alla collettività della Umwelt artistica. In quanto componente consolidata di una certa struttura ontologica del soggetto, l’arte è una forma privilegiata attraverso cui deve svilupparsi la formazione dell’uomo, del cittadino e della società. Siamo in un contesto di cooperazione, dove quelle che erano merci diventano sempre più funzioni produttive, e la riproduzione diventa riproduzione di comunità. Sul piano artistico, l’espressione diventa espressione di comunità.                                                      

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