Torino è città sabauda, severa, che dà di sé un’immagine pulita ed elegante, carica di storia, non solo ufficiale ma anche obliqua, fatta di un’eccellenza aristocratica e un po’ snob. Contraddistinta da sincera passione culturale, si offre spesso algida e salottiera nelle forme, mentre dalle sue contraddizioni serpeggiano nuove personalità e nuove esperienze: l’epoca propositiva e vivace dei centri sociali sembra essere scivolata via da tempo, ma il confronto tra istituzione e autogestione mostra confini sempre più labili e incerti. Sarà questa crisi, ma sembra che l’iniezione di personalità dinamiche nelle istituzioni — da Andrea Bellini, che passa da Artissima al Castello di Rivoli, a Francesco Manacorda, che da Londra ne riceve le redini, a Stefano Collicelli Cagol che ha ottimamente lavorato (e lavorerà) alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, fino a Elena Volpato, che assume il pieno controllo curatoriale del contemporaneo alla GAM — sia potenzialmente di valore per mantenere il primato nella promozione dell’arte contemporanea in Italia. Leggermente in anticipo su queste novità, accanto al sistema culturale dei musei e delle fondazioni, sono nate esperienze diverse, raggruppamenti di artisti che hanno dato vita a progetti ibridati di esposizioni, workshop, concerti e quant’altro.
Institution! Institution!
La nuova direzione del Castello di Rivoli di Andrea Bellini e Beatrice Merz si è proposta fin dall’inizio come un ponte tra locale e internazionale, in un’ottica di necessario compromesso nei confronti di un budget non eccelso, rispetto ad altri musei italiani, e della gestione precedente, per dare una soluzione di continuità. Il dialogo con l’identità culturale del museo e della città si è declinato nella rinnovata attenzione espositiva verso la collezione permanente, nella ideazione di incontri ed eventi di ampio respiro da parte di operatori locali, nel caso dello scrittore Gianluigi Ricuperati per il ciclo “Gli Irregolari” — focalizzato sulle figure non incasellabili della cultura italiana e internazionale — e del curatore Francesco Bernardelli in “Fuori cornice” — serie di incontri, proiezioni, eventi su personalità poco conosciute in Italia: una chiara dichiarazione d’intenti, da parte del museo, sulla natura di contenitore formativo per il proprio pubblico, e in grado, auspicabilmente, di attirarne un numero maggiore dalla città. Dall’altra parte, invece, la Manica Lunga del Castello di Rivoli diventa sede di verifica spaziale del sito, attraverso progetti curatoriali specifici, possibilmente giovani: il primo a cimentarsi con la bizzarra monumentalità dello spazio è l’inglese Adam Carr con “Exhibition Exhibition”.
Tra le attività della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, quella più interessante e culturalmente d’impatto è sicuramente la residenza per giovani curatori stranieri, organizzata insieme alla Fondazione Edoardo Garrone di Genova: ogni anno sono selezionati tre curatori, provenienti dalle più importanti scuole curatoriali del mondo, per affrontare un tour de force lungo la penisola, fatto di studio visit, letture portfolio e incontri. Il progetto permette dunque a giovani curatori di qualità ed esperienza di entrare in contatto con una realtà apparentemente figlia di un dio minore, ma che presenta non pochi scambi con l’esterno — perché se è vero che in Italia passano pochi curatori, critici e operatori stranieri, gli artisti italiani viaggiano, e molto. Così succede che uno dei selezionati del 2010, lo statunitense Chris Fitzpatrick, facendo tesoro del suo viaggio in Italia, continui nel suo dialogo con diversi artisti, come Emanuele Becheri, Giovanni Oberti e Mauro Vignando, invitati, nel caso specifico, al progetto SC13 a San Francisco.
La nuova GAM di Danilo Eccher ha dato un segnale di rinnovamento culturale ed espositivo, di pari passo con il Castello di Rivoli. Oltre a presentare la collezione permanente di Otto e Novecento secondo modalità ideali per una promozione intuitiva piuttosto che scolastica del proprio patrimonio, è l’Underground Project che ha visto un’accelerazione verso il contemporaneo, offrendo personali e collettive di artisti conosciuti bene da chi si muove tra le capitali europee, ma di sfuggita dal grande pubblico.
Torino non è solo una città o un contenitore, tuttavia. Essa è un perno, un aggregatore anche delle iniziative che sono al di fuori della propria cintura: la Fondazione Spinola Banna per l’Arte a Poirino, sotto la direzione di Gail Cochrane, ha offerto negli anni importanti workshop con artisti e curatori internazionali; non si può non citare Cittadellarte – Fondazione Pistoletto di Biella, il CeSAC di Caraglio (CN) nella nuova direzione del collettivo a.titolo e la sede di Guarene d’Alba della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. E non si può non citare in città la Fondazione Merz che, dopo il passaggio di Beatrice Merz a Rivoli, si è concentrata sulla valorizzazione dell’opera di Mario Merz; o il supporto collezionistico dato da Fondazione CRT e Associazione Artegiovane Torino, la quale condivide i propri spazi con l’Associazione Barriera.
Dal punto di vista galleristico, però, poco è cambiato negli ultimi anni: a fianco del lavoro sempre di qualità sul contemporaneo degli evergreen, l’unica novità di rilievo è rappresentata dalla galleria di Norma Mangione, dalle solide basi relazionali, capace di coinvolgere, fin dal suo esordio, curatori e artisti dal già ottimo riscontro internazionale.
Self-solution! Self-solution!
A prescindere dal rinnovamento delle istituzioni, è invece più curioso osservare ciò che si è sviluppato a partire da alcuni gruppi di artisti del torinese, intenzionati a stabilire parametri alternativi e meno legati a strategie di sistema, in fatto di modalità espositive, di workshop, eventi e incontri.
Dal 2008 esiste Cripta 747, spazio gestito e curato da Renato Leotta, Alexandro Tripodi ed Elisa Troiano, nella malinconica Galleria Umberto I di Piazza della Repubblica. Un contenitore a più livelli — sotterraneo, piano vetrina, spazio domestico-studio — che non solo accoglie mostre personali e collettive: è uno spazio liquido, capace di ospitare concerti di musica e dj set, così come residenze e workshop. Carattere fondamentale del progetto è l’attitudine para-curatoriale dei suoi animatori, artisti di formazione, aperti all’ibridazione autoriale con gli artisti coinvolti. Cripta 747 diventa così un dispositivo attraverso cui attivare delle connessioni, abile a innestare contatti e collaborazioni con altre entità sorelle. Un esempio può essere rappresentato dal doppio movimento di “Titolo grosso” e “Titolo basso”. Due ragioni, più che due momenti espositivi, per mettere in connessione una generazione di artisti e la loro attitudine al lavoro di gruppo, attraverso l’attività in spazi autogestiti o l’organizzazione di eventi. “Titolo grosso” si è tenuto presso Cripta 747 nel marzo del 2010 e ha coinvolto artisti del bacino piemontese e lombardo, come Alis/Filliol, Beatrice Bailet, Ludovica Carbotta, Leonardo Chiappini, Luca De Leva, Loredana Di Lillo, Giovanni Giarretta, Giuseppe Lana, Samuele Menin, Igor Muroni, Adriano Nasuti-Wood, Matteo Rubbi, Manuel Scano, Santo Tolone, Cosimo Veneziano e Mauro Vignando: ognuno invitato a esporre un proprio lavoro negli spazi di Cripta, come momento di confronto diretto e, perché no, semplicemente come momento per conoscersi meglio. Durante l’estate, lo spazio BOCS di Catania, tenuto da Giuseppe Lana e Claudio Cocuzza, ha di contro ospitato “Riunione di famiglia – Titolo basso”, dove si sono riuniti alcuni degli artisti invitati a Torino, più altre realtà non profit come Motel Lucie di Milano, GUM Studio di Carrara, DNA di Venezia e CHAN di Genova. In questo senso Cripta 747, nel mettere in dialogo situazioni tra loro lontane e periferiche per geografia, rispetto ai grandi centri di aggregazione, attua una tattica rizomatica intuitiva ed empatica, piuttosto che il perseguimento di una strategia comunicativa rivolta all’esterno. Un ulteriore esempio di modalità operativa è lo scambio avvenuto con GUM Studio — James Harris, Helena Hladilova e Namsal Siedlecki — nel corso del 2009: dopo essere stati ospiti per “Copia di una copia”, gli artisti di GUM hanno invitato Leotta, Tripodi e Troiano a lavorare su Carrara per la mostra “Germinal”.
Un’altra importante esperienza di autogestione in città è quella di Diogene, già orientata a un dialogo attivo con le istituzioni. Del gruppo di artisti fanno parte Alis/Filliol, Donato Canosa, Ludovica Carbotta, Andrea Caretto/Raffaella Spagna, Manuele Cerutti, Sara Enrico, Luca Luciano, Laura Pugno, Monica Taverniti e Cosimo Veneziano. L’idea nasce nel 2007 dalla volontà di offrire una residenza, a cadenza annuale, per artisti e organizzata da artisti, attraverso la costruzione di un vero e proprio bivacco di materiali di recupero su suolo cittadino, in grado di ospitare una o due persone, di offrire minimi comfort da campeggio e uno spazio per lavorare. Nel 2009, con il trasferimento del progetto su un tram riallestito e depositato su una rotonda, gli artisti di Diogene hanno ampliato il ventaglio di situazioni, garantito dal carattere assolutamente informale e immediato del contesto. Oltre a ospitare artisti e operatori per incontri e lecture (Collecting People), nel periodo in cui il tram non è sede di residenza, da quest’anno il Bivacco diventa anche una scuola (Solid Void) che dà la possibilità a giovani artisti di frequentare un breve corso formativo, senza lo scopo di realizzare una mostra o un evento. Nel progetto pilota di ottobre sono state presenti due personalità distinte, che hanno tenuto delle vere e proprie lezioni, l’artista Giovanni Morbin e il sociologo Gian Antonio Gilli.
Diogene e Cripta 747 sono diventati, in questi anni, dei poli di attrazione e di interesse per la generazione emergente di artisti in Italia e non solo: entrambe le esperienze condividono una visione non legata al territorio come modalità di coinvolgimento delle persone, quanto piuttosto una propensione alla ricerca oltre i confini nazionali, come dimostrano le rispettive programmazioni, sempre alla ricerca di un contatto diretto che si sviluppi in un accrescimento reciproco.
Here we are! Here we are!
In questi ultimi anni, sono emersi diversi artisti, per i quali è arduo individuare una matrice comune, se non l’interesse nei confronti del processo come campo di formulazione estetica del proprio lavoro.
La processualità di Renato Leotta si lega alle possibilità combinatorie e compositive, da una parte del paesaggio e dall’altra dell’eredità culturale visiva, come intersezione tra spazio fisico e spazio mentale. L’ambiente diviene un serbatoio indifferenziato di segni visivi che influiscono sulla percezione degli stessi, suggerendo sintassi e sintesi di forme e materiali, che mantengono caratteristiche misteriose ed epiche, invitando lo spettatore a immaginarne il messaggio. Gli accostamenti dei segni accadono per simpatia, per un’intensa esperienza del luogo, senza che questo ne divenga l’aneddoto o la condizione necessaria: in Germinal (2009) vengono fusi gestalticamente il paesaggio carrarino e la presenza della storica comunità anarchica; in Tecla (2010) il paesaggio umano, urbano e naturale del litorale catanese si trasfigura in una riflessione sui rapporti essenziali di peso e composizione tra gli elementi.
Il lavoro di Alis/Filliol (Davide Gennarino e Andrea Respino) coinvolge più direttamente la dinamica del processo nella presentazione del prodotto scultoreo. Operare come una duplice identità è per gli artisti il tentativo di verificare la presenza del limite, percettivo e corporeo, nel pensare e fare scultura. L’opera stessa spesso viene ricondotta a processi elementari di costruzione dell’immagine, lavorando sulle dicotomie tra pieno e vuoto, verticale e orizzontale, alto e basso, riflettendo su calco e matrice come condizione performativa. Un “teatro vuoto”, come amano definire il proprio palco, in cui l’ambiguità tra caso e controllo è l’unico attore-autore: nel caso di Calco di due corpi in movimento nello spazio (2010), attingendo a dinamiche performative percepibili ma nascoste; intime e suggerite in Napoleone si crede me (2009).
Per Ludovica Carbotta si può parlare di un’analoga ricerca sul limite, declinata su una visione più umanistica del rapporto tra la persona — l’artista — e l’ambiente che la circonda, nello specifico l’intorno urbano. I segni invisibili della città, come la patina che si deposita sul manto stradale o l’aria pesante che si respira, spesso diventano dei filtri per la costruzione del lavoro, attraverso processi messi in atto dall’artista stessa — come nel caso di Invisible Modulor (2009) — o da un dispositivo — Wrapped in Thought (2009).
Il percorso di Driant Zeneli si muove sui binari dell’attesa, sia mediante la costruzione di vere e proprie situazioni sia mediante il cogliere l’attimo nel quotidiano. Nel video all art has been… temporary (2008), la scritta al neon di Maurizio Nannucci muta di significato attraverso il guasto alle luci di tre lettere: il momento decisivo dello sguardo dell’artista si fa osservazione ironica sulla natura ambigua dell’immagine. La ricerca sul tempo e sull’effimero è anche campo della messa in atto di un processo che si risolve fatalmente nella sua scomparsa, come il tentativo di creare una nuvola in The Dream of Icarus Was to Make a Cloud (2009).