Eleonora Milani: La nostra ricerca nasce dalla volontà di capire le vibrazioni che i luoghi irradiano all’esterno e viceversa. Negli ultimi decenni, Torino ha indubbiamente preso una direzione sul contemporaneo, per quanto riguarda le arti visive e i musei, nel pubblico e nel privato. Quello che è evidente è anche la presenza di realtà ormai strutturate, tangenti alle arti visive, come il Torinodanza festival.
Anna Cremonini: A Torino, e più in generale in Piemonte c’è anche molto teatro con rassegne importanti. Io credo che i festival di danza rientrino in questa categoria. La nostra è una tendenza a una visione del contemporaneo nell’ambito coreografico, che a sua volta è legato in maniera innata alle altre espressioni artistiche, a partire dalla musica. Anche quando il teatro lavora con la musica antica e barocca, lo fa da un punto di vista di visione attuale e contemporanea. E ovviamente con artisti che sono legati alle arti visive.
EM: Mi ha colpito molto il titolo che avete dato a Torinodanza festival: “Dance Me To The End Of Love”. Cosa si trova alla fine dell’amore? Nella danza la corsa all’amore è espressa nella ricerca un po’ ossessiva della perfezione, che cela spesso il lavoro e la fatica.
AC: Questo titolo lo abbiamo scelto nel 2018, anno in cui ho preso la direzione ed è così rappresentativo che non lo abbiamo più cambiato. Da questo titolo io prendo lo spirito con cui lavoro per arrivare alla produzione finale di un programma. Credo che ci sia qualcosa di estremo e profondamente appassionante e passionale in questa frase di Leonard Cohen. Negli anni è diventata l’obiettivo finale per cercare di realizzare una maniera di lavorare, di metterci passione, attenzione, cura. Per me questo titolo rappresenta questo.
EM: Come si inserisce la storia di questo festival nel tessuto culturale di Torino?
AC: Il mio arrivo è relativamente recente ma Torinodanza, come rassegna, è nata negli anni Ottanta, con un approccio però più generalista se vogliamo. Poi negli anni Duemila è stato rilanciato da Fiorenzo Alfieri, un assessore illuminato che purtroppo è mancato poco più di un anno fa, che ne ha fatto una rassegna più dedicata al contemporaneo affidandone la direzione artistica a Gigi Cristoforetti (in carica fino al 2017) che ha creato un insieme di linguaggi, dalla danza al circo. Dal 2009 Torinodanza è promosso e organizzato dal Teatro Stabile di Torino, il teatro nazionale della città e una delle istituzioni portanti del sistema culturale torinese.
EM: Nella presentazione del tema di questa edizione, leggevo che volevi riflettere sul significato del festival. In che modo?
AC: Oggi “festival” è una parola molto diffusa, è anche un meccanismo. Ci sono tanti festival, si sono moltiplicati. È una proposta abbastanza diffusa. Ogni volta che mi avvicino all’elaborazione del programma, cerco di tenere a mente le ragioni che hanno reso felice questo genere di iniziative. Penso sempre a quello che successe ad Avignone, quando un artista illuminato come Jean Villard cominciò a presentare gli spettacoli all’aperto, in spazi non teatrali e anomali. La fondazione del festival di Avignone per noi che veniamo dalle arti performative è una svolta epocale: il teatro scende nelle piazze e nelle strade, arrivando in luoghi non convenzionali o mescolandosi a luoghi convenzionali. È un evento che rompe una tradizione che vedeva solo nella stagione teatrale tradizionale il suo pieno svolgimento. Da qui nasce il Festival di Avignone che è uno dei più grandi del mondo, anche per tipologia. È stato un evento storico che ha modificato la storia del teatro, non solo delle pratiche teatrali. Questa natura rivoluzionaria, che mantiene dei linguaggi legati al presente che lavorano sull’interpretazione e riflessione della società contemporanea è la vera natura di avvenimenti come i festival, che devono creare un’eccezionalità.
EM: È complesso oggi visitare delle esposizioni che riescano davvero a fare il punto su qualcosa. Questa eccessiva moltiplicazione di rassegne, biennali o triennali, tende ad ammazzare l’esclusività delle cose. Cosa pensi di questo fenomeno?
AC: Mi piace pensarla da un altro punto di vista. Più c’è ricchezza, più è facile trovare l’eccezionalità. Io sono molto universalista.
EM: Nel programma dell’edizione 2022 ci sono diverse produzioni in cui hai coinvolto coreografi africani. E poi una collaborazione con William Forsythe… per un danzatore è un privilegio mettere in scena Forsythe, che nella danza oggi è un po’ come dire Martha Graham. Penso sia evidente questa commistione nel programma, sembrerebbe una scelta ben precisa. È questa la modalità con cui il format può dare ancora tanto ed essere in linea con le aspettative dell’estetica contemporanea?
AC: La cosa importante è cercare di raccontare i linguaggi e le tendenze che abbiano uno sguardo acuto sui cambiamenti della società e del mondo in cui viviamo. Quello che ho cercato di fare quest’anno è stato ampliare i confini, soprattutto rispetto ad alcuni autori che non sono stati molto rappresentati a Torino e nel nostro festival con tutto ciò che di positivo e di negativo ciò comporta. Si tratta comunque di linguaggi diversi con complessità differenti. È fondamentale per me è aprire uno sguardo ad artisti di questo tipo. Come ad esempio lo spettacolo dal titolo “XXX” di Amala Dianor, senegalese naturalizzato in Francia, che ha messo insieme tre giovani coreografi di tre diversi paesi dell’Africa, ognuno dei quali porta tre danzatori in scena. Questo porterà una produzione delle giovani generazioni africane, soprattutto dell’Africa occidentale, sui palcoscenici europei iniziando così un dialogo artistico e dialettico rispetto alla nostra realtà. Lo stesso vale per la coreografa coreana Eu-Me Ahn. Inaugureremo con uno spettacolo di Damien Jalet, coreografo franco-belga che lavora da alcuni anni a stretto contatto con l’artista visivo giapponese Kohei Nawa. Questi sono dei punti di vista diversi e inediti per il nostro pubblico, molto importanti da raccontare nella nostra società contemporanea.
EM: Un’altra cosa che ho letto di te è che intendi ampliare i confini della danza contemporanea. Pensi che la danza sia ancora molto confinata a un pubblico specifico, o che oggi sia più vicina all’arte visiva, nelle modalità in cui lo era negli anni Cinquanta e Sessanta?
AC: Vorrei superare i confini politici! (ride) Questo sarebbe l’obiettivo. Penso che la danza sia un linguaggio vivo, che riesce a dialogare con pubblici molto diversi, e anzi che mantiene una forza ancora maggiore di quella del teatro. La danza è un linguaggio molto più in grado di parlare alla generazione del 2000 perché usa la forza del corpo. Oggi il tema della lingua è molto controverso, il concetto di lingua nazionale quasi non esiste più. Penso che la danza sia è uno dei linguaggi del futuro perché lavorando sul corpo al centro della propria materia di riflessione (anche se paradossalmente è capace di arrivare ad annullare anche il corpo), usa uno strumento che è patrimonio di tutti. Il corpo è la cosa più democratica perché appartiene a tutti nello stesso modo. Io credo molto nella capacità di crescita e di comunicazione della danza proprio per queste ragioni ed anche il motivo per cui riesce a dialogare fortemente con le altre arti. E poi credo che continui a lavorare e dialogare con le arti visive tanto quanto accadeva all’epoca che tu citi. Non penso che sia cambiato tanto: la mitizzazione degli anni Sessanta e Settanta è sempre la mania post che abbiamo nella nostra società. Le sperimentazioni sulle arti visive e sulla musica contemporanea sono continue e vive, e vengono rinnovate tutti gli anni. In questo la danza è un sistema molto aperto.