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27 Ottobre 2025, 12:51 pm CET

Tre indugi. “Inserzioni” Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea / Rivoli-Torino di Piermario De Angelis

di Piermario De Angelis 27 Ottobre 2025
Oscar Murillo, A see of history, 2025. Veduta della mostra "Inserzioni" presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2025. Courtesy l’artista © Oscar Murill. Fotografia di Tim Bowditch.
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Lydia Ourahmane, Per voce, 2025. Courtesy l’artista e Sarah Ourahmane. Fotografia di Sebastiano Pellion di Persano.
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Guglielmo Castelli, Dining Room, 2025. Courtesy l’artista, Mendes Wood DM, Sao Paolo / Bruxelles / New York / Paris, e Sylvia Kouvali, London / Piraeus. Fotografia di Nicola Morittu.
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Oscar Murillo, A see of history, 2025. Veduta della mostra “Inserzioni” presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2025. Courtesy l’artista © Oscar Murill. Fotografia di Tim Bowditch.
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Guglielmo Castelli in “Inserzioni” presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2025. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino Fotografia di Sebastiano Pellion di Persano
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Lydia Ourahmane, Per voce, 2025. Veduta della mostra “Inserzioni” presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2025. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Fotografia di Sebastiano Pellion di Persano.
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Oscar Murillo, A see of history, 2025. Veduta della mostra “Inserzioni” presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2025. Courtesy l’artista © Oscar Murill. Fotografia di Tim Bowditch.
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Oscar Murillo, A see of history, 2025. Veduta della mostra “Inserzioni” presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, 2025. Courtesy l’artista © Oscar Murill. Fotografia di Tim Bowditch.

«Questo castello invece è più difficile». Scriveva così nel 1984 Rudi Fuchs, primo direttore del Castello di Rivoli in occasione della mostra inaugurale “Ouverture”, nelle prime righe del suo testo in catalogo. Il primo paragrafo era titolato Le stanze: tutte diverse, come in attesa nei loro futuri possibili all’interno dell’edificio barocco, rimasto incompiuto e diventato poi il primo museo di arte contemporanea in Italia.

Si entra nel Castello come fosse una casa di qualcuno, una «dimora» più difficile, appunto, del «museo normale, fatto di stanze simili».
Di riflesso si potrebbe quasi dire: esporre delle opere in una casa, che è sempre un corpo incompiuto, vuol dire entrare in un’assenza, metterne in scena le difficoltà e le possibilità. Non a caso il termine “dimora” deriva dal verbo latino “demorari”, che vuol dire “trattenersi, indugiare”: una strana torsione data alla cara domesticità, dove nel fondo c’è sempre qualcosa che rimane e qualcosa che fugge. Fortezza e deserto insieme, e nel mezzo tutte le possibilità racchiuse in un indugio.

Far apparire questo indugio è «difficile», appunto. Materializzare questo stato di esitazione che non è tanto racchiuso in una serie di momenti specifici, ma ricorda più lo spiffero d’aria che sta in mezzo, tra di loro, allo stesso modo in cui una glossa, un’interlinea, uno scarabocchio, una piega si inseriscono in un testo trasformandolo per sempre. L’indugio trasforma, e penso che il Castello di Rivoli sia uno spazio in cui poter scendere giù in questo mormorio narrativo, nel tremolio simbolico di quelle stanze incompiute e tutte diverse che oggi, dopo quarant’anni, accolgono tre nuove presenze di Guglielmo Castelli, Oscar Murillo e Lydia Ourahmane.

Si tratta del primo appuntamento di “Inserzioni”: nuovo programma di commissioni che invita gli artisti a sostare in questo vuoto positivo, inscriverci le proprie posture, incarnarci le proprie urgenze, costruirci i propri simboli silenziosi. Credo che proprio la grammatica del simbolico possa essere un tentativo di lettura possibile per questa polifonia di differenze. Tre artisti, tre vite, tre movimenti sotterranei.

Entrando nelle sala 15 del primo piano, dedicata all’immaginario di Castelli (Torino, ,1987), e come se i miei occhi si posassero su un’unica, interminabile, tenera e grottesca piega, che si moltiplica come le volute barocche della sala, persistendo in maniera invisibile nelle fisionomie e nelle prospettive distorte delle tele, nelle paradossali silhouette delle sculture in carta attorcigliate intorno a modellini di mobilio domestico, e nella moltiplicazione dei taccuini di appunti della sala 16 appena accanto. Ogni corpo e ogni segno si riordina nel suo essere sfasato rispetto a un ordine prestabilito, che sia quello della ragione, della vita adulta, della società, della rappresentazione, della casa, del tempo cosiddetto ‘lineare’. E ciò che appare è un piacere un po’ tenero, un po’ perverso; volumi strani, scherzosi e grotteschi; ammiccamenti e marachelle verso una realtà in cui si intuisce la sopravvivenza di quella terribile libertà infantile in cui tutto ha senso e niente ha senso. La piega dell’immaginazione rivela questa ‘docile’ oscurità…e questa storia che non ha significato / è come mettere il vino nel bucato, / è come dire buonanotte al muro / e poi lavarsi i denti col cianuro. Così il titolo della mostra; uno dei fogli dei taccuini annotava, invece: «Ordine nostalgico di un assetto spaziale».

Ecco l’indugio inteso come sentimento immediato della propria parzialità: un vagabondare intimo, appassionato e senza la pretesa di una totalità, che si ripropone anche nell’installazione monumentale della sala 18 realizzata da Oscar Murillo (La Paila, Colombia, 1986). A see of history si estende per 150 metri quadrati come superficie sospesa a 75 cm dal pavimento, assemblando 48 tele provenienti dal progetto Frequencies, iniziato nel 2013 con l’intento di raccogliere tessuti precedentemente applicati ai banchi di scuola e disegnati dai bambini di 37 Stati del mondo. Sono segni semplici, simili a pittogrammi rupestri delle turbolenze di oggi (l’analogia tra segno infantile e segno primitivo ritorna spesso nella critica del XX secolo, da Georges Bataille1 a Ernst H. Gombrich2) ora unite e intrecciate alle campiture blu di Murillo, come a formare il mare di una storia vista sottosopra.
La si guarda infatti, ma con l’aiuto di un faretto luminoso in testa (tecnologia che vincola i movimenti corpo stesso alla superficie illuminata, lasciando il resto al buio), tra il pavimento e i 75 cm, come in un’esplorazione speleologica, tornando in qualche modo indietro in un tempo animale di disinteressata scoperta sensibile. Un’esperienza che ricorda le parole di Bataille sulla grotta di Lascaux, in cui «ciò che ci sconvolge e ci trasfigura è la visione di qualcosa di remoto»3. Così nell’opera di Murillo il tempo è raggomitolato; questa geografia non si può mai vedere del tutto, obbliga al movimento, a un vagabondare senza percorso che, come la curvatura di Castelli, sembra emergere nell’indugio tra tenerezza e oscurità.

Infine, Per voce di Lydia Ourahmane (Saïda, Algeria, 1992), nella sala 5, dove l’indugio si materializza nel gesto quasi impercettibile dello sfioramento: quello delle dita di cantanti ipovedenti, mentre performano una partitura in Braille inscritta — bianco su bianco — nella parete della sala e realizzata dalla sorella dell’artista Sarah, compositrice e musicista. Nel testo curatoriale, il direttore Francesco Manacorda sottolinea la similitudine fonetica tra i termini “tradurre” e “tradire”, scrivendo di come Per voce abbracci questa «prossimità semantica» che lascia emerge quest’opera come costellazione di echi reciproci tra visibile e invisibile. È l’indugio reso performance quotidiana, in quello spazio dialettico interiore tra inscrizione — la parete-partitura — e deviazione — l’interpretazione tattile e orale che elegge la fragilità del corpo a matrice di un’intuizione immediata e radicale. Nell’oscurità della parete bianca, lo sfioramento è sia necessità contingente che proiezione simbolica, attenzione radicale del corpo, presenza.

Questo terzo movimento sotterraneo di “Inserzioni” si intreccia all’andare torto di Castelli e al vagabondare di Murillo: metafore motrici, ma anche grammatiche esistenziali che, nella loro diversità, lasciano intuire le possibilità del vedere non solo con gli occhi, ma con tutto il corpo. Sono tre indugi, tre spifferi che, in un modo o in un altro, tendono alla perdita di controllo, vivendo le loro incompiutezze, registrando le proprie fragilità.

Forse le immagini sono anche questo: perdite di un intero, coreografie della loro stessa deriva, glosse incompiute. E anche questo testo è «difficile», perché per restituire questa organicità attraverso le parole bisognerebbe tenderle e strecciarle fino alla loro sparizione. Forse in questo caso è meglio mantenere un po’ di vuoto, scrivere parole esitanti, mantenere lo spiffero tra una stanza e l’altra.

1G. Bataille, L’arte primitiva, in G. Bataille, Documents, edizioni Dedalo, Bari, 197, pp.120-132.
2E. H. Gombrich, Il cavallo a manico di scopa ovvero le radici della forma artistica, in E. H. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa. Le radici della forma artistica, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 17-39.
3G. Bataille, Lascaux o la nascita dell’arte, Abscondita, Milano, 2014, p. 14.

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