Pubblicato originariamente in Flash Art no. 288, Novembre 2010.
La ricerca di Turi Simeti si sviluppa come un corpo unico, dove la superficie rigorosamente monocroma è caratterizzata da un’energia che preme sotto la sua pelle. Dopo l’esordio informale con un occhio ad Alberto Burri, aderisce a quella linea che fa capo a Lucio Fontana enucleata nel gruppo Zero Avantgarde, in sintonia con gli artisti di Azimuth della Milano degli anni Sessanta, nella riflessione radicale sul linguaggio in un’analiticità non programmata, per una nuova identità di pittura: più che un trend, un atteggiamento filosofico di interrogazione costante rispetto all’arte e alla vita, di prassi e riflessione che si rivolge all’essenza e alla strategia radicale dell’opera come apparizione, nel superamento dei confini tra pittura e scultura in una estensione spaziale di stampo concettuale. Rispetto a Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, Simeti riduce la ripetizione delle forme al minimo, focalizzandosi sulla modulazione luminosa per un’esigenza di poetica nel segno del motto less is more che sintetizza uno dei principi dell’avanguardia, nella strenua affermazione dell’autonomia di un’opera che rimanda solo alla propria realtà autosignificante, sottraendosi all’esercizio della rappresentazione.
In una partenogenosi senza soluzione di continuità ogni opera nasce dalla precedente, e cresce nel rapporto subliminalmente percettivo con chi guarda e con lo spazio, come un organismo vivente, un coagulo di luce ed energia pulsante che l’autore calibra e misura. Più che oggetti, soggetti silenziosi ed enigmatici, distanti ma decisamente attraenti, frutto di un approccio dove si fondono visione cosmica e parcellizzata. Nella sua metariflessione sul linguaggio e la forma, Simeti sceglie l’ellisse come figura d’elezione — figura, più che cercata, trovata sperimentando le sue controllate combustioni del periodo informale —, la quale sottrae la superficie “alla sua misura di neutralità e crea una presenza evidenziata dal rapporto tela-luce”, come scrive l’artista. Negli anni Simeti la declina come modulo, reiterandola, liberandola in assetti variabili, assumendola come unico fulcro di attenzione o dilatandola fino a incorporare il supporto stesso, sperimentandone la peculiaretà di rigore ed elasticità per eccellenza, fino ai lavori recenti dove l’apparente diminuzione della sollecitazione visiva dilata la percezione dell’opera in termini di fenomeno sensibile e denso di senso in quella sinergia tra esperienza personale, ricerca estetica e contesto, in una complessità verificabile dove la bellezza è l’esatta coincidenza tra forma e sostanza.
Difficile parlare della gestione estetica del silenzio delle opere di Turi Simeti, tra rarefazione estrema e fisica corposità, refrattarie a ogni inquadramento per definizione. Opere che hanno vissuto sulla propria pelle l’ideologia e il suo sgretolarsi, il liquefarsi delle gerarchie, dei valori, dei riferimenti, quella progressiva e disorientante mancanza di un centro comune, ma anche l’apertura a una pluralità sostanziale e al dissolvimento delle dicotomie, che si nutrono dell’ampliarsi delle capacità di lettura di chi guarda. Da assenze da contemplare a presenze stimolanti, strutture del possibile in un’idea di arte legata tanto all’autenticità dell’esperienza personale che al rapporto con il suo tempo: mostrano della realtà proprio quelle pieghe non immediatamente percepibili come la pausa, il vuoto, la differenza, distogliendoci dal riconoscere per stimolare invece a conoscere. L’opera di Simeti, presentando ripetizioni pure, pone un problema ontologico, aggira il limite e ogni rigido dualismo, libera il pensiero oltrepassando la coppia dogmatica e retorica dell’artista e dell’opera, passando da una forma-immagine predeterminata a un parametro-immagine parte di un processo autogenerativo e di genesi fenomenologica costante per sottolineare l’infinita pluralità delle differenze.
Patrizia Ferri: Che senso ha oggi parlare di astrazione e figurazione, ovvero di quella contrapposizione dei linguaggi che hai vissuto sulla tua pelle in periodi estremamente manichei da questo punto di vista come gli anni Sessanta e Settanta, dove l’opzione linguistica era una precisa scelta di campo?
Turi Simeti: In quegli anni è stata battaglia, guerra aperta tra arte astratta e figurativa, da ricordare lo scandalo dei sacchi di Burri, o dei tagli e dei buchi di Fontana. Ora è scoppiata la pace o la convivenza. Questi due grandi artisti contemporanei adesso sono esposti alla Pinacoteca di Brera a Milano, i loro lavori sono collocati accanto a Piero della Francesca, Raffaello e tutte le opere della collezione di Brera, è una situazione molto interessante, una sfida quasi. “Burri e Fontana a Brera” è una mostra da vedere a proposito della convivenza tra astrazione e figurazione.
PF: Quali erano i rapporti con i tuoi compagni di strada, da Fontana a Manzoni?
TS: Lucio Fontana mi invitò a partecipare alla mostra “Zero Avantgarde”, realizzata nel 1965 nel suo studio di Corso Monforte, è stato lì che l’ho incontrato per la prima volta e poco tempo dopo, quando ho avuto la mia prima personale a Milano alla Galleria di Zita Vismara, è venuto alla vernice e ha comprato un mio quadro per la sua collezione di giovani artisti. Di Piero Manzoni conoscevo il suo lavoro, avevo visto una sua mostra a Roma. Alla mostra “Zero Avantgarde” erano esposte le sue opere, lui purtroppo non era presente, era scomparso da un paio d’anni.
PF: L’ossessione della perfezione ti perseguita, come riesci a mantenerti con i piedi per terra?
TS: Non sono ossessionato dalla perfezione, semplicemente nel mio lavoro non ci sono casualità, è tutto regolato dall’inizio alla fine: dai disegni e dalle misure per il falegname che mi costruisce i telai al mio intervento per collocare i rilievi (ovali), alle numerosissime mani di colore. Se alla fine il risultato non è soddisfacente, lo distruggo e ricomincio daccapo.
PF: L’identità dell’artista radicale ti calza a pennello a fronte di un silenzio eloquente che esprime l’opera. Come hai vissuto la ridondanza espressiva degli anni Ottanta e quali sono stati i costi della tua dichiarata autonomia?
TS: La Germania soprattutto! Lì la Konkrete Kunst era dominante. Per anni, per molti anni ho lavorato in Svizzera, in Austria, ma soprattutto in Germania; ho fatto più di trenta mostre personali presso importanti gallerie. Il risultato è che in questi paesi sono conosciuto e apprezzato, e i miei quadri si trovano in molti musei e in grandi collezioni private.
PF: Ci sono artisti come te (Castellani, Opalka ecc.) che tutta la vita fanno lo stesso quadro che forse esprime la vocazione del funambolo o la permanenza un po’ masochista sulla lama del rasoio…
TS: Non mi considero né funambolo né masochista, ma pienamente soddisfatto del mio modo di lavorare e dei risultati che ottengo.
PF: L’ellisse è la tua figura d’elezione. Quali sono le motivazioni di una fedeltà che risale ai tuoi esordi?
TS: Avendo sperimentato il movimento della superficie della tela con forme diverse — quadrati, rettangoli, triangoli, linee curve — mi sono convinto che la forma ovale è per me la migliore per creare una presenza evidenziata dal rapporto superficie-luce. Da qui la fedeltà alla forma ovale. In realtà l’avevo trovata per caso, bruciando i bordi di cartoline rettangolari (nel mio breve periodo burriano); avevo ottenuto delle forme ovaleggianti, da lì il passo verso la forma ovale.
PF: Le tue “Shaped Canvas”, ovvero le tele sagomate all’interno della ricerca internazionale ed europea nel periodo della neoavanguardia, hanno vissuto lo sgretolarsi di un sistema ideologico e di pensiero in senso ampio: sembrerebbe a prima vista che abbiano assorbito e metabolizzato il cambiamento senza esserne state toccate, anche se effettivamente da un certo momento in poi si caricano di tensioni impercettibili, assumendo un’identità più precaria, più aperta allo spazio…
TS: Lo sgretolarsi di un sistema ideologico del quale parli mi fa venire in mente la caduta del Muro di Berlino e il conseguente crollo dei sistemi comunisti. Ma tutto ciò non ha influenzato assolutamente né il mio lavoro né credo quello di altri artisti dell’area Konkrete. Abbiamo continuato il lavoro metabolizzando il cambiamento.
PF: In che modo hai sperimentato il binomio arte-vita? Credi che oggi riassuma un senso che vada oltre lo slogan?
TS: Ebbene sì, ho vissuto. Ho viaggiato molto, sono stato a New York nei favolosi anni Sessanta, quando ci incontravamo fra tanti artisti italiani in visita a New York, così come a Roma, a piazza del Popolo, con Tano Festa, Mario Ceroli, Franco Angeli, Pietro Consagra e tanti altri. Ho fatto in quegli anni anche una personale a St.Thomas, nei Caraibi, e sono stato invitato come artist in residence dalla Fairleigh Dickinson University. Ho preso una casa studio a Rio de Janeiro e negli anni Ottanta e Novanta ho realizzato mostre a San Paolo e a Rio de Janeiro, e lì ho conosciuto Essila, con la quale convivo da più di venticinque anni.
PF: Come ti collocavi all’epoca e come ti posizioni ora rispetto al sistema? Da apocalittico, da integrato o da fautore di una terza via?
TS: All’epoca ero di sinistra, oggi sono di sinistra, mai stato un integrato. Guardo con grande pena l’infimo livello in cui è ridotto questo paese.