A Kassel come a Münster, dunque, quest’anno l’Italia è completamente assente. Almeno nel caso di Kassel non si tratta di una sorpresa: tempo addietro, durante una conferenza stampa, il curatore Roger M. Buergel dichiarò apertamente la sua scarsa conoscenza e il suo altrettanto scarso interesse per la scena artistica italiana. E la nostra totale esclusione a priori — a quanto ne so, Buergel non ha effettuato alcun viaggio di studio in Italia durante la preparazione della mostra — da una documenta con tanti artisti ancora poco visti, conosciuti e collezionati a livello internazionale, fa ancora più impressione.
Negli ultimi anni ho condotto, su richiesta del Ministero degli Esteri, della DARC e di UniCredit, un’indagine sulla percezione dell’arte italiana in alcune importanti capitali dell’arte internazionale: New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Berlino, e di una interessante outsider come San Paolo del Brasile. Piuttosto spesso i miei ricercatori hanno dovuto annotare dagli intervistati, scelti tra figure di primo piano delle scene locali, commenti molto simili nella sostanza a quelli di Buergel: la conoscenza della scena italiana è scarsa, e del resto, se ci fosse qualcosa di interessante, si verrebbe a sapere, no?
Qualche nome italiano, in effetti, gira. Negli ultimi anni, le presenze sulla ribalta internazionale si stanno moltiplicando e non sono più riducibili, come spesso si continua a ripetere, ai “soliti” Cattelan e Beecroft. Francesco Vezzoli viene sempre più frequentemente invitato a mostre importanti. Monica Bonvicini ha partecipato a molte delle principali biennali degli ultimi anni in giro per il mondo. E anche altri artisti come ad esempio Luisa Lambri, Massimo Bartolini o Armin Linke sono riusciti a ottenere qualche presenza qualificata sebbene in via più occasionale. Ma si tratta di una “rappresentatività” della scena italiana abbastanza ingannevole: Vezzoli si è formato come artista a Londra ed è lì che ha mosso i suoi passi decisivi, e lo stesso è accaduto per Monica Bonvicini a Berlino. Come Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft, che hanno preso la strada di New York, anche Vezzoli e Bonvicini hanno cercato altri palcoscenici per poter suonare la loro musica con una ragionevole possibilità di essere ascoltati dalle orecchie giuste.
Stabilire la propria base in Italia, a quanto pare, non è una mossa saggia per gli artisti che nutrono fondate ambizioni. Ma è davvero impossibile fare in modo che il nostro paese torni a essere visitato con regolarità da curatori di livello internazionale curiosi di capire che cosa accade al di qua delle Alpi per dare spazio anche alla nostra scena all’interno dei loro progetti? Forse no. Alcune indicazioni di politica culturale emergono con sufficiente robustezza.
1) Stabilire efficaci programmi internazionali che offrano ai curatori stranieri la possibilità di trascorrere soggiorni di studio in Italia. Il FRAME, ad esempio, che è l’agenzia finlandese per il contemporaneo, organizza un programma di visite intensissimo: in ogni giorno dell’anno sono presenti nella piccola ma efficiente sede almeno due-tre curatori provenienti da ogni parte del mondo a cui viene offerto ampio accesso a una ricca documentazione sul lavoro degli artisti, la possibilità di visite agli studi (guidate o meno, a seconda delle preferenze), nonché di proporre progetti. I risultati sono evidenti: artisti come Eija-Liisa Ahtila, Salla Tykkä, Elina Brotherus, Esko Männikkö hanno raggiunto ormai una notevole visibilità internazionale e più o meno tutti mantengono ancora la propria base di residenza e di lavoro in Finlandia.
2) Inserire gli artisti all’interno delle reti dei programmi di residenze più interessanti a livello internazionale. La carriera di un’artista come Luisa Lambri, ad esempio, si è esemplarmente sviluppata attraverso una sequenza di residenze in contesti attentamente scelti e non scontati: dalla Lituania al Giappone. Ma analizzando il curriculum di quasi tutti gli artisti di primo piano emersi negli ultimi anni, si nota che le residenze giocano sempre un ruolo importante, soprattutto in corrispondenza della fase di consolidamento internazionale del loro lavoro.
3) Abituare gli artisti a saper presentare e discutere il proprio lavoro. Quasi ogni mostra museale negli Stati Uniti prevede un artist talk nel quale l’artista o gli artisti coinvolti discutono con il pubblico, lo staff curatoriale del museo, gli studenti delle scuole d’arte locali e spesso con curatori e critici esterni. In Italia questo accade di rado, e ancora una volta i risultati si vedono. Molti degli esperti interpellati evidenziano come non raramente gli artisti italiani mostrino una scarsa disinvoltura nella presentazione e nella discussione, se non anche nelle modalità di proposta progettuale, un limite che inevitabilmente li penalizza fortemente nelle fasi di selezione per le mostre importanti.
4) Sostenere gli artisti che ricevono inviti in istituzioni estere importanti, non soltanto nella prima fase della carriera, ma anche e soprattutto nelle fasi decisive del consolidamento internazionale. Gli artisti tedeschi, olandesi, nordeuropei, inglesi o americani — per limitarci ad alcuni degli esempi più evidenti — a cui vengono offerte opportunità espositive di particolare rilievo ricevono molto spesso un supporto finanziario significativo dalle istituzioni del paese di origine, e di conseguenza, a parità di condizioni, tendono a essere invitati preferenzialmente rispetto ad artisti provenienti da paesi che non dedicano risorse a queste iniziative (come troppo spesso avviene da noi).
5) Potenziare la DARC con mezzi finanziari adeguati a farla funzionare come una vera agenzia del contemporaneo a 360 gradi, così da poter dedicare risorse finanziarie e umane non soltanto ai compiti istituzionali basilari ma anche al coordinamento e all’impegno diretto in politiche attive di promozione come quelle citate ai punti precedenti.
6) Offrire finalmente alle nostre gallerie un regime fiscale ragionevole che permetta loro di sviluppare la propria attività in condizioni concorrenziali rispetto a quelle degli altri paesi, con conseguenti più ampi margini di investimento nei propri artisti e nelle proprie strategie di promozione e internazionalizzazione. La debolezza economica e finanziaria di buona parte delle nostre gallerie, in un contesto nel quale anche molti musei devono a loro volta combattere con budget estremamente ristretti e soprattutto sempre incerti, in assenza di una politica pubblica orientata secondo le linee sopra descritte, lascia i nostri artisti pressoché inermi di fronte alla sempre più agguerrita competizione internazionale.
Nessuna di queste politiche, naturalmente, può o deve sostituirsi al mercato e può o deve coprire un percorso artistico debole. E tornare a fare dell’Italia un paese capace di attrarre l’attenzione del mondo dell’arte internazionale non significa certo sedersi sulla porta ad aspettare che qualcuno arrivi, ma al contrario sapersi muovere per primi con lucidità e cognizione di causa. Bisogna viaggiare e non avere paura di battere strade poco familiari. Ma allo stesso tempo forse è possibile tornare a fare in modo che vivere e lavorare in Italia non significhi necessariamente per un artista chiudersi a chiave dall’interno.