Some things are just pictures
They’re scenes before your eyes
And don’t look now I’m right behind you
Coolsville Coolsville,
So perfect So nice,
So nice!
Laurie Anderson
Un aspetto della società contemporanea con cui anche gli artisti hanno dovuto fare i conti è la capacità, da parte di un sistema sempre più flessibile, di assorbire le proposte e le spinte “sovversive” o “rivoluzionarie” che vengono “normalizzate” e rese innocue. Se questo porta da un lato a una democratizzazione della società, dovuta alla sua adattabilità e quindi alla — almeno parziale — accettazione di ogni proposta, dall’altra il prezzo da pagare è un’omologazione generalizzata e l’immobilismo della società stessa che, pur accettando condizioni così diverse, in pratica appiattisce ogni risultato non permettendo nessun tipo di alternativa e di cambiamento. Questo si riflette anche sui rapporti intercorrenti tra artisti e mercato.
Il mercato dell’arte ha infatti sviluppato una capacità di adattamento e di assorbimento impensabili precedentemente e ogni forma artistica, anche di dissenso o di negazione, viene sfruttata da un punto di vista commerciale. È anche per questo che alcuni degli artisti che non hanno rinunciato a un ruolo intellettuale hanno imboccato una strada che conduce proprio all’interno del sistema, usando i media e le tecniche che di volta in volta si rivelano più efficaci, usando quindi gli stessi “messi” del sistema. Ci si integra perché solo dall’interno ci si può far sentire, ma nello stesso tempo si insinua il dubbio all’interno, negando solidarietà al sistema stesso infiltrandone il dubbio all’interno. Anche Maurizio Cattelan sta percorrendo questa strada che lo ha condotto a realizzare dei lavori dove vengono scardinati i tradizionali rapporti visivi o culturali, dove gli oggetti o le situazioni vengono decontestualizzati, destrutturati, quindi liberati. Il suo lavoro è caratterizzato quindi da una frantumazione dell’opera e degli interventi realizzati, usando i media, la pubblicità, l’economia e il mercato. Lo stesso gioco del calcio (così sacro per gli italiani) e gli oggetti realizzati per il design — dotati di una propria funzionalità — vengono analizzati seguendo la stessa procedura. È una ricerca ironica e provocatoria al tempo stesso, che può toccare anche tematiche politiche e soprattutto sociali, ma che non sfocia mai in una presa di posizione ideologica. Si sviluppa quindi un processo capace di rifondare e riorganizzare gli oggetti — o le azioni — ma soprattutto di mettere in crisi un uso univoco del linguaggio che non viene negato ma semplicemente aperto a un numero teoricamente infinito di contaminazioni. E questo pone il suo lavoro in relazione con analoghe ricerche che si stanno sviluppando soprattutto all’estero.
Roberto Pinto: Hai lavorato spesso — soprattutto all’inizio — in una zona di confine tra arte e design.
Maurizio Cattelan: Non mi preoccupo di definirmi un designer o un artista; penso di essere sempre un clandestino in tutte le mie attività. Quello che mi interessa è spostare il punto di vista: un oggetto che nasce per una funzione può diventare, tramite una rilettura (o meglio una rifondazione) semantica, un’altra cosa, qualcosa in grado di stupire o comunque di rigenerarsi. Quello che è veramente importante è che l’oggetto abbia una sua personalità e, a seconda del contesto, possa essere letto come una cosa o l’altra.
RP: Una costante che si può riscontrare nel tuo lavoro è il tentativo di entrare nei sistemi per trovarne il punto debole, la frattura, per sovvertirne i piani… anche nel fondare la Cooperativa Scienziati Romagnoli ti sei basato su questo?
MC: La Cooperativa è nata con un intento critico, ironizzando sul punto di vista di uno “straniero” all’interno del monopolio romagnolo del sistema cooperativistico. Ma subito dopo è diventato il mio alter ego, un modo per fare delle cose senza intervenire in prima persona.
RP: … un modo impersonale di agire…
MC: Piuttosto un messaggio non identificabile con una persona; per esempio sostenere con un’inserzione elettorale una riflessione sul voto (l’inserzione conteneva la scritta: “Il voto è prezioso, tienitelo”, ndr) diventava quasi la stessa cosa che sostenere un candidato; mentre era molto più interessante lasciare il messaggio in qualche modo anonimo, ma possibilista, sperando che potesse far riflettere sul modo ripetitivo, quasi incosciente di prendere parte a un rito sociale collettivo.
RP: Anche alla Fiera di Bologna hai agito allo stesso modo allestendo uno stand abusivo su cui promuovevi il tuo lavoro, ma quale significato volevi dare allo stand, volevi presentarlo come un’opera?
MC: Sto sostenendo e sponsorizzando una squadra di calcio formata esclusivamente da extracomunitari; e ho pensato che la migliore maniera di promuoverla è di agire come un extracomunitario, diventando cioè un abusivo; per cui l’idea di questo stand “illegale” è già insita nel prodotto promosso. Poi fa parte delle modalità di tutti i lavori che sto sviluppando: insinuarsi nelle maglie che ogni sistema lascia libere, non in maniera provocatoria e visibile, ma in modo mimetico, usandone gli stessi mezzi. Ciò che voglio rappresentare in questo modo è la lotta contemporanea tra il bisogno di essere liberi e uno schematismo sempre più forte. Lo stand non è quindi una performance, né un’opera d’arte, è semplicemente uno stand.
RP: Ma il pubblico, in questo caso quello della fiera, come reagisce alle tue provocazioni? Capisce il tipo di operazioni che fai?
MC: Devo dire che c’è stato anche un sostegno economico, alcune persone hanno lasciato dei contributi per sostenere l’iniziativa, ma è vero che la gente che si è avvicinata era abbastanza perplessa, soprattutto si chiedeva perché un artista volesse promuovere una squadra di calcio. La cosa che mi fa più piacere è che la gente si ponga delle domande, poi se le mie domande sono differenti da quelle del visitatore, non ha molta importanza.
RP: E gli addetti ai lavori: critici, galleristi…
MC: Mi piace molto avere un confronto con loro perché in genere hanno le idee chiare, e questo da una parte mi dà molta sicurezza però nello stesso tempo mi sgomenta perché non ci sono dubbi, e se non ci sono dubbi non ci sono domande, quindi non ci sono perché e se non ci sono perché… capisci dove si arriva?
RP: Ma in questo modo, sponsorizzando una squadra di calcio, oppure facendo un’inserzione elettorale, non credi di lanciare anche un messaggio politico?
MC: Non sono interessato alla propaganda, tocco dei contenuti politici perché mi pongo il problema delle differenti categorie della realtà. Credo però di rispondere alla necessità sempre più diffusa di nuovi argomenti morali… anche se alla fine ci si ritrova faccia a faccia con se stessi più che con il sistema… Penso che la vera situazione da scardinare sia quella interiore: più il mio lavoro si rivolge all’esterno più credo parli dei miei problemi, della mia interiorità.
RP: L’arte come autoanalisi?
MC: Sì, ho sempre sostenuto questo punto di vista.
RP: Consideri le tue “operazioni” una sorta di lavoro collettivo, un’opera aperta visto che coinvolgi (più o meno consapevolmente) altre persone…
MC: Certe “operazioni” erano state ideate e realizzate proprio con questo intento; perché la costruzione e la riuscita del lavoro stesso dipendono anche dal grado di interazione che si stabilisce con le persone con cui vieni a contatto. Cerco sempre di lasciare l’opera, senza confini già demarcati, in modo che sia il rapporto con gli altri a completarla.