Il confronto con la mostra centrale curata da Massimiliano Gioni per la Biennale di Venezia di quest’anno non è semplice. In un percorso che si apre con l’esposizione del Libro rosso di Jung al Padiglione Italia ai Giardini e si distende lungo l’Arsenale arrivando fino al Giardino delle Vergini, molti piani di discorso prendono forma e si sovrappongono, in una cornice di grande eleganza e leggibilità, dove le didascalie accompagnano la visione fornendoci indicazioni sugli autori ma anche chiavi di accesso dettagliate all’incontro con i lavori esposti. Riconosciuto questo, a conclusione di una prima visita che somiglia a un’immersione in un universo affascinante ed eterogeneo, “Il Palazzo Enciclopedico” lascia irrisolti molti interrogativi e ripercorrere le visioni attraverso la lettura del catalogo non li risolve, piuttosto li consolida. Nello spazio concentrato di un commento, tra le tante ipotesi percorribili, provo a portare l’attenzione su un aspetto che ritengo centrale nella percezione complessiva della mostra, partendo dalla dichiarazione del curatore, quando afferma che la mostra è concepita come un museo temporaneo.
Mi sono interrogata su questa affermazione sin da quando sono apparsi i primi comunicati stampa, e la prima risposta che mi sono data è che forse su questo appoggio si fonda la possibilità di prendere le distanze dall’idea di biennale come sismografo per intercettare le produzioni artistiche più rilevanti del momento, per inoltrarsi su una strada dove è lo sguardo del curatore che individua cosa sia attuale e non esclusivamente la data di produzione di un lavoro. Se possiamo considerare questa ipotesi plausibile, peraltro non è la prima volta che chi cura la Biennale di Venezia pratichi uno spostamento in questa direzione, restituendo così una visione del contemporaneo non appiattita sul presente, è l’approdo — il museo intendo — che resta problematico. Dico questo perché la soluzione adottata e sottolineata di includere in un museo, seppur temporaneo, artisti professionisti e dilettanti, insider e outsider, per — riprendendo quanto scrive Gioni “liberare l’arte dalla sua prigionia” — non può essere una scelta efficace a modificare un sapere disciplinare e disciplinato, poiché questa trasformazione non può che essere l’esito di un processo di emancipazione, dove non basta l’autorizzazione inclusiva di chi ha la possibilità, il potere di farlo.
La questione dell’autonomia dell’arte — alla quale il curatore si riferisce indicandola appunto come prigionia — così come la questione a essa correlata sulla sua presunta morte, annunciata più volte e mai accaduta, ha avuto molte oscillazioni e, a seconda di epoche e contesti, ha assunto connotazioni e dunque significati differenti, rigiocando cioè in modo dinamico da un lato la necessità di uscire da uno splendido quanto mortifero isolamento e dall’altro la necessità vitale di continuare ad alimentare il confine tra sé e il mondo, aprendosi a esso e includendo, ma presidiandone l’esistenza. Tenendo presenti le vicende dell’arte dall’inizio del XX secolo a oggi, abbiamo indizi sufficienti per spostare il discorso, dal momento che non regge l’equazione secondo la quale la fuoriuscita dell’arte nel mondo corrisponde a maggiore libertà e la tensione a mantenere vivo un confine corrisponde a un desiderio di restaurazione, poiché, come detto, queste spinte non solo assumono un significato a seconda dei contesti, ma sono tensioni fondamentali che non possono trovare una soluzione semplice proprio perché costituiscono l’elemento contradditorio a partire dal quale si costituisce la definizione dell’arte così come la conosciamo.
Difficile oggi considerare il contesto dell’arte come un contesto esclusivo — se non per quanto riguarda il dorato mondo dei collezionisti miliardari — è un fenomeno evidente la crescita esponenziale dei visitatori di mostre e di musei, così come è un fenomeno altrettanto evidente la crescente artisticizzazione di ambiti affini all’arte, che ne hanno assunto linguaggi e modalità di presentazione, la moda e il design, per esempio. Lo spostamento del discorso a cui facevo riferimento poco prima, caso mai riguarda l’aura, il valore aggiunto che modifica qualunque cosa sotto certe condizioni, dove — è storia nota — la modalità di presentazione e i contesti giocano un ruolo fondamentale. Il dibattito su questo punto è delicato e sono molti i contributi importanti a cui fare riferimento, mi limito a suggerire quelli di studiose come Griselda Pollock e Mieke Bal, che in questi anni hanno esplicitamente posto diversamente la domanda, contribuendo in modo significativo all’apertura di quel territorio complesso di studi che rispondono al nome di cultura visuale, dove uno snodo centrale è l’affermazione che il problema non riguarda l’oggetto in sé, se è arte, non è arte a priori, ma la sua collocazione, ovvero come esso acquisisce senso, quale discorso agisce o subisce nel momento in cui è esposto. Tornando da quanto scritto nel catalogo alla mostra, un altro aspetto centrale e collegato con il precedente riguarda la presenza del Libro rosso di Jung a inizio mostra: bellissimo e immerso in un’atmosfera magica, sembra avere ritrovato il modello a cui l’autore si è ispirato, ovvero i manoscritti medioevali, e la modalità di esposizione ha un ruolo centrale nel rievocare questo riferimento.
Ma non possiamo dimenticare che nel 2009 questo volume, dopo essere stato conservato per lungo tempo dalla morte dell’autore nel caveau di una banca svizzera, sia stato pubblicato a Londra nella sua versione inglese, e l’anno successivo in tutto il mondo e in Italia da Bollati Boringhieri, a un prezzo certamente consistente, 150 €, ma non stellare, tant’è che in pochi giorni ne sono andate vendute migliaia di copie.
La riproposizione in mostra dell’originale non credo sia importante poiché si tratta di una raccolta di immagini di “un dilettante”, credo e spero che non sia questo il motivo di interesse, che cogliamo nell’osservare quelle pagine, ma certamente rafforza la componente auratica del volume, cioè ristabilisce delle distanze con noi spettatori che, in quanto copia, la recente pubblicazione ha invece contribuito a ridurre. Personalmente, continuando ad ammirare la bellezza dell’originale, avrei apprezzato molto vederlo affiancato con una copia pubblicata di recente. Questo avrebbe reso visibile la contraddizione a cui facevo riferimento poco sopra.
Inoltre, se Jung era un dilettante perché disegnare non era il suo mestiere, porre la questione in questo modo alimenta un equivoco destinato non solo a foraggiare illusioni ma anche a svilire lavori di artisti che, proprio nel portarsi su questo bordo, hanno cambiato il nostro sguardo. Questo “abbassamento” di un certo saper fare, segna, come è noto, tutto ciò che è accaduto dalle avanguardie storiche in poi. Con molto impegno non escludo di riuscire a fare disegni simili a quelli di Jung, di riuscire a ruotare la testa come Bruce Nauman, di riuscire a produrre una statua con oggetti recuperati come quella di Jimmie Durham e via dicendo. Credo non sia una buona idea.