Da qualche settimana, il dibattito culturale in rete si è lasciato intrappolare da una strana, quanto banale, parola chiave: “New Aesthetic”. La sua storia è interessante, perché è anche la storia di come, oggi, nascono e si diffondono le idee.
Il termine nasce nel maggio 2011 come nome di un Tumblr (http://new-aesthetic.tumblr.com/), una piattaforma di blogging che ben si presta all’aggregazione e alla circolazione sociale dei contenuti, in particolare immagini. Il primo post rappresenta un doppio ritratto così pixelato da rendere i soggetti, e la stessa “forma” umana, del tutto irriconoscibili.
Il sito è gestito da James Bridle, un giovane designer londinese, che lo definisce “un moodboard per prodotti sconosciuti”; e si popola presto, a un ritmo considerevole (un centinaio di post al mese), di immagini, video e link che costruiscono per frammenti una teoria ancora assente: emergenze di un’estetica del pixel e dell’errore nell’arte, nella grafica, nella moda, nei prodotti di consumo e nell’architettura; mappe e infografiche; digital camouflage; pratiche di resistenza alla videosorveglianza e alla dataveillance (il monitoraggio dei nostri dati personali in rete), che si manifestano attraverso progetti di fashion design, forme di make-up e app gratuite; immagini che documentano come le macchine (i satelliti di Google Maps, la fotocamera a nove occhi di Google Street View) vedono il mondo, e altre che raccontano di interventi sul reale fatti per essere visti non da noi, ma dalle macchine.
La teoria arriva presto, nella forma di un Keynote tenuto da Bridle alla conferenza Web Directions South a Sydney, nell’ottobre 2011. Secondo Bridle, la New Aesthetic si concentra sui nuovi modi di vedere e le sue estetiche.
Gli esempi che porta chiariscono che si tratta dell’impatto del digitale (nell’accezione più vasta del termine) sulla nostra cultura visiva, sul nostro modo di vedere, e sulla realtà. Ma è, nel marzo 2012, il panel coordinato da Bridle al South by Southwest (SXSW) Festival di Austin, in Texas, a fare della New Aesthetic una sorta di prezzemolina del dibattito online, dai blog a Twitter alle mailing list.
Le trascrizioni degli interventi vengono subito condivise in rete; il romanziere e design guru Bruce Sterling le dedica un lungo saggio nel suo blog su Wired; The Creators Project, la piattaforma promossa da Intel e Vice, invita diversi artisti e teorici a rispondergli; e gli interventi si moltiplicano qui e altrove, ramificandosi in tutti i territori della creatività. Il successo della sua idea ha stupito lo stesso Bridle, che candidamente ha ammesso che se l’avesse previsto gli avrebbe dato un nome migliore. Eppure, il nome si adatta benissimo all’idea, e ha avuto un ruolo importante nel suo successo. In fondo, la New Aesthetic non fa altro che affermare l’ovvio: che le nuove tecnologie stanno cambiando la nostra realtà e il nostro sguardo sul mondo, e che tutto questo è nuovo e strano; che reale e digitale si fondono e si confondono; e che da anni, ormai, creiamo e vediamo attraverso le stesse macchine, le cui logiche e i cui modi di vedere si ripercuotono su ciò che vediamo e creiamo.
Tutto ciò è ovvio, facilmente condivisibile, facilmente comprovabile con una collezione di immagini, ma non è ancora stato affermato ad alta voce. Ci sono, in altre parole, tutti gli ingredienti per dare vita a un meme di successo. Così, chi crede nell’idea comincia a pretendere da essa la coerenza di una teoria, e la radicalità di un movimento: cosa che non è e non può essere, nascendo come uno studio volutamente bergeriano sul visivo, come rivela indirettamente la ricorrenza del sintagma “way of seeing” nel dibattito in corso.
La New Aesthetic non è interessante come idea: è interessante come fenomeno. Il suo successo testimonia che la fusione di reale e digitale è ormai giunta a un livello molto alto di visibilità e di riconoscibilità; e che quando vediamo un QRCODE, un cuscino pixelato, un’immagine photoshoppata, un errore di compressione, un’architettura di Zaha Hadid, una ripresa satellitare, una maschera di Guy Fawkes, tutti sappiamo cosa stiamo vedendo, e tutti sappiamo che stiamo vedendo la stessa cosa, anche senza avere la più pallida idea di cosa significhino termini come “robot vision”, “parametricism” o “augmented reality”. Tutto ciò fa ormai parte della realtà, più di quanto siamo disposti ad ammettere.
La sua apertura a territori come la moda, l’architettura, la pubblicità e la comunicazione di massa, il design degli oggetti e la progettazione di software dimostra invece la velocità con cui ricerche inizialmente coltivate da una nicchia penetrano nel mainstream: una velocità che reimposta completamente la tradizionale relazione tra avanguardia e kitsch, sperimentazione radicale e gusto di massa.
La New Aesthetic, tuttavia, constata, non commenta; riconosce, non analizza e non critica. I “New Aestheticians” si entusiasmano come bambini nel notare, e nel farci notare, le innumerevoli manifestazioni del digitale nella realtà, e nelle immagini che la rappresentano; perlustrano le metropoli come flâneur, alla ricerca di segni che stimolino il loro sguardo “educato” dalla rete; vanno alla deriva su Google Earth e Street View, selezionando quelle immagini che rivelano l’intelligenza artificiale dietro all’obiettivo.
Approdare a questo livello di riconoscimento è molto importante: potremo capire ben poco della realtà in cui viviamo, finché penseremo di vivere ancora nell’era del petrolio e dell’acciaio. L’estetica ha il potere di rendere visibile il cambiamento, che oggi si manifesta in forme troppo astratte, immateriali, discrete e difficili da capire per i non addetti ai lavori. Ma vedere non basta.
È necessario capire, farsi domande, criticare, correggere, abusare. Per questo, per quanto la New Aesthetic si nutra di arte, non sarà mai un movimento artistico, né un’utile chiave interpretativa per comprendere l’arte contemporanea: perché di quest’ultima coglie solo la superficie.
Ciò che potrebbe diventare, con un nome migliore, è una categoria del gusto contemporaneo, come “surreale”, “minimal”, “cyberpunk” o “postmoderno”. Ma immaginate di sentire “guarda quell’ombrello: è molto New Aesthetic”?