Che vuol dire esistere gli uni con gli altri?
Che vorrebbe dire esistersi l’un l’altro?
(Jean-Luc Nancy)
“Non c’è essenza senza ‘co-essenza’ e non c’è esistenza senza co-esistenza.” Jean-Luc Nancy ripropone la questione del senso dell’essere nel punto di incontro tra gli esistenti, nel nostro essere originariamente gli uni con gli altri. Elabora una nuova ontologia dell’essere che è, al tempo stesso, singolarmente plurale e pluralmente singolare: non sussiste presenza che non sia spartita, non vi è un soggetto che non sia un noi, un “in sé” che non sia con altri, nella simultaneità e concomitanza dell’esistere. Le riflessioni sull’essere singolare/plurale nel pensiero del filosofo francese si intrecciano alle osservazioni sull’esperienza amorosa, dell’essere-con che rappresenta il vero “prendersi cura” dell’altro, luogo in cui si dà l’essere singolare/plurale di ogni esistente; e a quelle inerenti il concetto di comunità, che è un essere in comune, essere l’uno con l’altro, ovvero essere insieme. Da queste suggestioni prende le mosse Lover’s Discourse, progetto realizzato da Valerio Rocco Orlando durante il soggiorno all’ISCP di New York, città dove questo lavoro è stato recentemente presentato negli spazi di Momenta Art.
La strategia estetica di Valerio Rocco Orlando da sempre combina l’impianto filmico con la versatilità del linguaggio videografico, innestandolo su un sostrato estetizzante e ricco di citazioni colte. L’artista è volto a sperimentare nuove modalità di messa in scena e rappresentazione, tese allo scardinamento dell’impianto narrativo classico. Lover’s Discourse segna tuttavia uno scarto ulteriore rispetto al corpus dei lavori precedenti, è un’opera dalla genesi e dalla polisemia complessa, dove i molteplici riferimenti, le citazioni meta-stilistiche, i collegamenti intertestuali, riducono l’utilizzo del medium alla stregua di un mero ipertesto che suggerisce contesti interpretativi molteplici e spiazzanti. Un modus operandi evidente sin dal titolo, ispirato ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, saggio anomalo sul vocabolario legato al processo dell’innamoramento, redatto in maniera volutamente asistematica e corredato da una serie di lemmi di lunghezza variabile che spaziano tra riferimenti taoisti e Zen, introspezioni psicoanalitiche, citazioni dalla filosofia classica come dalla letteratura romantica, e ancora conversazioni, ricordi intimi e note autobiografiche; una congerie di elementi eterogenei che tracciano una sorta di personale “semiologia” dell’amore.
Il riferimento, lungi dall’essere un mero prelievo citazionista, è piuttosto metodologico: diviene quasi una dichiarazione di intenti. Valerio Rocco Orlando enfatizza l’entropia del modello di partenza per esplorare cambiamenti, sfide ed esperienze che costituiscono l’identità dell’essere coppia, oltre i limiti di età e sesso, con l’obiettivo dichiarato di indagare l’importanza fondamentale della reciprocità e dell’interscambio con l’Altro. L’artista invita nel proprio studio coppie di innamorati che hanno risposto a un annuncio affisso in una serie di posti pubblici: bacheche universitarie, bar, club, lavanderie a gettoni, ristoranti. Lì mette in scena, in una sintesi destabilizzante di arte e vita, il processo di creazione di questo nuovo lavoro, ne ripercorre tutti i passaggi à rebours; trasforma il proprio spazio privato in un set essenziale, abitato solo da uno sgabello girevole, un faro cinematografico volutamente retrò e un poster in bianco e nero di un ritratto muliebre di Renoir, raffinata citazione da À bout de souffle di Jean-Luc Godard.
In risposta alla “teleobiettività multimediatica subentrata agli artifici della settima arte” (Virilio), l’artista opta per un approccio intimista al video, assume un punto di vista deliberatamente raccolto, interiore, privato, volto a ripercorrere i meandri dell’anima. L’approccio con la realtà diviene più dialettico che speculare, il medium è piegato a pratica autoreferenziale che risponde a proprie regole e principi: essenzialmente un azzardo, dove ogni ripresa diviene un istante rubato all’incertezza del divenire, qualcosa che è sottratto alla totalità e alla continuità del vissuto. Lover’s Discourse è un percorso con pochi, labili confini, tra accostamenti improbabili e sintassi inaspettate. Una serie di tranche de vie racconta i momenti più intimi della vita in due. Ne smaschera meccanismi, antagonismi e contrasti, rimanda a sentimenti molteplici e discordanti, restituisce una riflessione sull’amore vissuto nella quotidianità, dove le coppie volontarie, divenendo parte del discorso amoroso allestito dall’artista, si mettono in gioco direttamente: senza mediazione alcuna esibiscono la propria vita, il proprio essere al mondo, senza alcuna sovrastruttura glamour, alcuna glorificazione, si concedono per come sono, disperatamente umani, troppo umani, con le proprie debolezze e fragilità. Sebbene ogni singolo individuo coinvolto si relazioni direttamente con l’artista che realizza per ciascuno un video-cammeo, il confronto/scontro e il sistema di relazioni che si innesca si estende in realtà a tutte le persone implicate nel progetto e in ultima analisi rimanda allo spettatore stesso, che diviene il diaframma tra l’affermazione di una radicale soggettività e il mondo, mentre il contenuto dell’immagine si trasforma nel processo stesso della sua rappresentazione.
L’immagine, ce lo ha insegnato per tempo Aby Warburg, è portatrice di una memoria individuale e collettiva a un tempo, di tracce che si manifestano come sintomi irrompendo nel presente. “La congiunzione delle immagini, sempre lacunose e relative — aggiunge Georges Didi-Huberman — apre una via per mostrare malgrado tutto ciò che non si può vedere.” Questo è possibile proprio lasciando irrompere un altro tempo, che è quello della visione nel nostro tempo di spettatori, nell’asincronia che ogni immagine mette in scena ipso facto, convertendo una lacuna in una risorsa. Il lavoro prende forma attraverso il potere delle immagini montate in sequenza e allo stesso tempo si nutre di ognuna di esse, o meglio dell’incastro tra l’una e l’altra. Le immagini si rafforzano, si risemantizzano, ma soprattutto si vivificano attraverso gli occhi e l’esperienza dello spettatore. I nascondimenti si riproducono all’infinito, le verità si moltiplicano, le identità si celano o si duplicano in un gioco infinito di specularità. È questo, tra l’altro, il gioco proprio alla dialettica dello sguardo che appartiene all’elaborazione estetica, ancora una volta speculare, come rileva sempre Didi-Huberman nelle pagine di apertura di un intenso saggio dedicato allo sguardo nell’arte contemporanea (Ce que nous voyons, ce qui nous regarde), dove suggerisce come proprio lo spazio dell’arte sia, inevitabilmente, lo spazio del doppio e del paradosso, di un’implicazione (“ciò che vediamo vale — e vive — ai nostri occhi unicamente per ciò che ci riguarda”) e di un transito che non conduce a un risultato definitivo, ma agisce senza sosta nella riconfigurazione di un equilibrio, di un incontro e di una relazione intermittente, sempre diversa, fra lo spettatore e l’opera, fra chi vede e ciò che è visto.
Valerio Rocco Orlando propone all’ignaro spettatore il gioco dell’attraversamento di un luogo impossibile da attraversare, che ha come posta il raggiungimento di un al di là nel quale si raggrumano i sensi possibili di un reale, la cui esistenza viene messa costantemente in discussione. Ne risulta un dialogo polifonico che sostituisce e rimpiazza quello “binario” legato alle coppie di partenza, attiva una deflagrazione dell’ordine precostituito dal quale l’universo umano esce atomizzato. Analogamente agli alfieri della Nouvelle Vague, cui costantemente l’artista si ispira, l’obiettivo diviene un testimoniare in tempo reale l’immediatezza del divenire, la realtà in cui esso stesso prende vita. Tracce sparse di un diario intimo di una generazione disinvolta e inquieta, dove pensieri, sensazioni, emozioni e ricordi riaffiorano in modo disordinato e confuso, attraverso cortocircuiti e scarti temporali, complice il sapiente montaggio, realizzato a partire dalle risposte degli intervistati. Scaturiscono storie aperte e meta-narrazioni potenzialmente infinite, dove lo sviluppo diegetico principale, il discorso sull’amore e sul relazionarsi in quanto coppia e quindi in quanto micro-comunità, si dilegua in una serie di micro-storie generate dal vissuto dei singoli personaggi, restituendo uno scenario sospeso tra reale e simbolico che diviene metafora dell’idea stessa di communitas. Lover’s Discourse diventa in questo modo la visualizzazione del “singolare plurale dell’essere”, del nostro essere originariamente gli uni con gli altri. L’artista mette in scena la nudità dell’esistenza, il nostro essere prima persona al plurale, unici nella molteplicità degli enti.
“Nessun inizio/Nessuna fine/Nessuna direzione/Nessuna durata — il video come [proiezione della] mente.” Questa l’indicazione, asciutta e rigorosa a un tempo, di Bill Viola, una dichiarazione di poetica che ben sintetizza, a mio avviso, le caratteristiche odierne delle “tecnologie dell’intangibile” (Baudrillard), e che ben si presta al discorso di s-definizione del genere, alla sottile eversione del medium che agisce Valerio Rocco Orlando. Il video torna a oltrepassare il dato fisico e a scardinare, ancora una volta, il rapporto analogico fra immagine e realtà, configurandosi come topos delle tangenze e degli sconfinamenti all’incrocio tra vari linguaggi, sospeso tra pittura, fotografia e cinema. Un’attitudine ibridativa esemplare di un’analisi metalinguistica costante nel percorso dell’artista, la cui ricerca è caratterizzata da una felice contaminazione di generi e da modalità differenti di approccio al testo filmico, è costantemente volta a rimettere in questione la fruizione e l’esperienza stessa della visione.