Giacinto Di Pietrantonio: Di cosa parliamo?
Vanessa Beecroft: Vorrei parlare in terza persona, con la lingua dei — referenti — mammuth, ma sono ancora deficiente e mi esprimo in forma sensibile. Guardo la prospettiva di un linguaggio asettico ma più che mai mi riconosco affezionata alle percezioni.
GDP: Della pittura?
VB: La storia delle immagini della pittura prima e di certo cinema poi mi fa identificare tipi umani che ancora cerco perché ancora esistono: hanno solo cambiato costumi e portano vesti per altri riti e parti, mentre loro si ripetono.
GDP: Sempre delle ragazze però.
VB: È come se, ciclicamente, certe figure femminili si attribuissero la responsabilità di comportamenti esemplari, estremi; adesso una specie di digiuno, o sacrificio ginnico, è un nuovo costume per la santa, l’isterica, la strega medievale. Lo spirito del tempo ha bisogno di una (modesta) controparte del genere.
GDP: Con addosso gli abiti di oggi che riferiscono la storia della pittura?
VB: Ora osservo certe tenute sintetiche con bande laterali che favoriscono una certa elasticità, costringendo l’epidermide in una forma plastica ideale, deputate a riti contemporanei.
GDP: Cercando?
VB: Cerco i protagonisti di questo film, che si classificano secondo ordini e famiglie. Gruppo di famiglia in un interno (Europa). Storia di famiglia (ferite dell’Europa).
GDP: Da quando hai queste visioni?
VB: A nove anni visitavo mia nonna a Berlino e mi impressionava la ferita longitudinale che la sezionava, così come un sentimento ferito divideva la mia famiglia. Per spirito di autoconservazione ho così considerato l’Europa intera il territorio per una famiglia, istituendo, di volta in volta, legami parentelari acquisiti per affinità: Róza Luxemburg diventa una prozia e R.W. Fassbinder suo nipote; il Dott. Kluge mio carissimo referente e A.C.A. Beecroft il mio più caro amante.
GDP: E poi tornavi in Italia?
VB: Se potessi ricolorerei l’Italia, che con la sua luminosità diffusa e imparziale, classica, tempra i cuori e i contrasti.
GDP: Una posizione molto umanistica.
VB: Poiché sono uomo, questo è il mio limite e la mia misura e, per quanto la tecnica mi attiri, ho deciso, per questa volta, di essere un po’ incapace. Contro il professionismo, per perdere anziché acquistare capacità, faccio pulizia buttando via le immagini, in modo parziale.
GDP: Parzialità che è la parte manierista che metti in scena nella prima performance?
VB: In Film, trenta ragazze portate come pubblico speciale direzionavano, con la loro presenza, indirettamente a Despair, libro del cibo dattiloscritto da un elenco alimentare quotidiano e ossessivo tenuto dal 1985 al 1993 e formalizzato in un volume macroscopico, o: La paura mangia l’anima. Anne Wiazemsky, triplicata in giovani dai capelli artificiali rosso elettrico, è l’immagine della eroessa della Chinoise di Godard che staziona, per un giorno, nella stanza di Jane bleibt Jane, capace solo di moltiplicarsi con i suoi disegni sui muri.
GDP: Perché tanto cinema?
VB: È medio proporzionale tra quanto succede fuori e quello che riesco a vedere: è un paesaggio già selezionato di momenti scelti, filtrati, quindi meno inquinanti; ma questa miopia per la realtà, o daltonismo, ritorna, come la coda di uno scorpione, ad avvelenarmi di empatia. E questo spero di abbandonarlo. A scuola mi piaceva ripetermi questa frase: “La matematica fissa, nell’immobilità della formula, l’infinita varietà delle apparenze”.