Massimo Riposati: L’artista, in quanto sciamano, premonitore, preveggente e interprete, quale percorso sceglie? Quale luogo sceglie per nascere in quanto artista e in che modo elegge la dimora della propria morte fisica? Questo è un percorso che tu stai compiendo con una consapevolezza che, osservando i tuoi lavori, non può non rendersi evidente. Mi puoi dare l’immagine del luogo della tua vita, della tua origine, della tua nascita e quello della tua morte?
Vettor Pisani: Quando penso al luogo della mia morte penso a L’Isola dei Morti di Böcklin poiché il luogo ideale è anche un simbolo che ci allontana da una morte troppo personalizzata, troppo legata alla vita reale: questo quadro è percepito allo stesso modo anche da altri artisti e infatti è un luogo che ritorna continuamente nell’opera di Dalì. Credo che trovare il luogo della propria morte sia un problema molto interessante, che ci appartiene profondamente, perché si nasce in un luogo qualsiasi e la nostra nascita non dipende da noi. La ricerca del luogo dell’infinito, o dell’eternità — perché il luogo della morte è anche il luogo che decidiamo per l’eternità — è una nostra scelta ed è quindi molto più importante del luogo in cui nasciamo, che è invece casuale, anche se non del tutto: credo infatti che nella creazione non ci sia niente di casuale e che il luogo della morte sia un luogo che costruiamo noi con la nostra immaginazione. L’aldilà non è uguale per tutti, perché alla nostra morte abiteremo in un luogo creato dalla nostra immaginazione. Per questo è molto importante avere immaginazione e produrre immagini che ci piacciano: l’aldilà appartiene all’ordine del sublime. Per questo non dobbiamo stare nell’aldilà come se fosse una punizione, un inferno, una pena, ma come se fosse una sorta di giardino o di luogo che abbiamo inventato perché ci piacerà stare per l’eternità in quel luogo. Ritorno a L’Isola dei Morti di Böcklin: l’aldilà è il luogo della morte di Böcklin, è la sua isola, che lui stesso ha dipinto come luogo del sublime: i cipressi, la solitudine, la nostalgia, l’atmosfera tranquilla, rilassante. I faraoni costruivano le piramidi come tombe, quando erano in vita; anche i papi espressero questa volontà, questo desiderio, addirittura questo piacere di costruirsi la propria tomba. In un mondo profano nessuno lo farebbe perché porterebbe cattivo augurio. Torno ancora a L’Isola dei Morti di Böcklin, alla capacità di immaginare un luogo che ci piace e al fatto che nell’aldilà saremo in un luogo della nostra immaginazione. Per capire l’importanza e il fascino di questi luoghi, gli antichi, e anche ai nostri immediati predecessori, costruivano il cimitero nel luogo più bello. A Mentone, un paese che sale velocemente al di sopra del mare, il cimitero è collocato proprio in cima al paese: da questo luogo si guarda l’orizzonte all’infinito e ognuno può immaginare di essere nell’aldilà, in quello che, in maniera profana, chiamiamo morte, e che in questo caso significa essere nel luogo più bello del paese. A Roma un posto così lo troviamo alla Piramide, perché anche lì ci sono luoghi della serenità e dell’eternità. Il luogo dell’immaginazione è un argomento che mi affascina molto, anche perché io non credo nella morte come estinzione dell’essere, ma nel passare da uno stato all’altro e nel fatto che, se siamo stati capaci di crearci una nostra immagine dell’aldilà, avremo un aldilà. Sulla tomba di Böcklin c’è scritto che non tutti muoiono e questo non significa che tutti sono immortali, ma che c’è gente che muore e gente che non muore; questo dipende dalla volontà che ha avuto ognuno di crearsi un proprio aldilà: questo fa la differenza tra persona e persona. C’è chi crede in Dio e chi non crede. Crede in Dio chi ha dentro di sé una spiritualità, e chi non ce l’ha è giusto che non creda perché ognuno in fondo crede in quello che è. Essere ateo, credere in qualcosa, non solo in Dio, ma anche nell’arte che esiste solo per chi ama l’arte: per chi non l’ama, non esistono i musei e, anche se ci sono, sono degli oggetti inutili. Meglio uno stadio, un ospedale, una casa per i poveri, perché le cose esistono solo per chi crede nelle cose, e questo fa la differenza.
MR: Hai individuato l’azione creativa dell’uomo, le opere che produce mediante l’immaginazione, come una serie di apparati che poi gli consentiranno di mantenere una capacità di sopravvivere a se stesso, di mantenere la dimensione della propria vita nell’altra che attraverseremo dopo la morte. In realtà costruiamo, con i nostri oggetti, una sorta di apparato che popolerà l’ambiente della nostra vita successiva.
VP: Penso che l’uomo moderno debba recuperare la propria tragicità, la propria drammaticità; c’è, da parte della società moderna, un tentativo di voler continuamente sottrarre all’uomo questa qualità che invece è molto importante. Una società come la nostra, in cui si pensa solo alla vita o al sopravvivere — che è anche peggio —, questa idea della drammaticità, della morte, della vecchiaia, viene continuamente sottratta e censurata, e infatti non esiste più un rituale della morte. L’idea di morte è sottratta: oggi si muore all’ospedale, nessuno attraversa la strada e vede passare un funerale; oggi la morte è diventata invisibile e la cosa peggiore è che sta diventando invisibile anche la vecchiaia, perché si cerca sempre di dividere i giovani, la parte efficiente e lavorativa della società dalla parte anziana, più contemplativa. Ritengo sia necessario ridare all’uomo moderno il sentimento del tragico, perché la vita è tragica per le persone e penso che cancellare il suo destino di drammaticità sia un tentativo di alienazione.
MR: La tua casa-museo in Toscana è probabilmente esemplare dell’incontro tra la creatività e l’individuazione del luogo in cui essa trova la sua collocazione ottimale; questo luogo diventa utile per te e per la tua vita futura, perché è lì che trovi l’origine della materia che hai creato. Essa può però diventare luogo di un simbolico pellegrinaggio umano; la visita di questa casa permette di “attraversare” chi l’ha creata, ma offre anche l’occasione di ricercare dentro di sé le istanze di quella speciale facoltà creativa che ti fa riconoscere per conoscere.
VP: È una casa che ha in sé elementi simbolici, di carattere iniziatico, e sembra stupefacente che sia sorta senza un progetto che avesse queste intenzioni; a volte il caso costruisce strane perfezioni. In realtà questa era un casa di muratori, in cui vivevano degli intagliatori di pietre che tagliavano massi nelle cave, ed erano sospesi lì; nella casa c’era una centralina elettrica che permetteva, attraverso delle carrucole, il trasporto di questi massi. I muratori avevano lì il loro laboratorio, pieno di macchinari di trasporto, come se fosse una macchina celibe. La forma di questa casa ha un significato simbolico: è chiusa fra lo spazio ristretto che si affacciava sulla cava e una strada che passa alle sue spalle; la sua pianta e il suo volume è a forma di una fetta di torta, come una casa torinese. Anche in America ne ho viste di simili: la sua base è un triangolo di forma quasi pitagorica, sul quale si potrebbe costruire un teorema di Pitagora; tutto questo affaccia su un precipizio che è fatto di vasche d’acqua, con tanto di vegetazione e uccelli. Non è un luogo arido, in questo momento è diventata una specie di serra, dove si è generata una vegetazione, degli animali, ed è molto suggestiva. È suggestivo soprattutto vedere all’esterno e all’interno della cava cumuli enormi di pietre tagliate e squadrate, poi abbandonate. Fra queste pietre vado alla ricerca, con la mia immaginazione, della pietra di Dürer, cerco di capire se tra quelle ce ne possa essere una, con questa forma, che è stata casualmente tagliata e abbandonata. In realtà quando penso alle cave, penso a quelle che hanno permesso la costruzione della piramide di Cheope: se ci sono queste piramidi in Egitto, da qualche parte ci saranno anche delle voragini da cui è stato ricavato il materiale. Ecco perché questa voragine è prodotta per costruzioni che saranno altrove. Quando penso alle pietre o alle rocce penso a La Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci: c’è tutta una serie di riferimenti che mi fanno fantasticare, andare dietro ai miei sogni, trovare un luogo di fantasmi, che poi sono gli artisti che amo e che sono altrove. In questi luoghi nascono anche i cipressi, e vedere questi mucchi di rocce su cui crescono erba e alberi, rimanda continuamente a L’Isola dei Morti di Böcklin, che visse e morì proprio in Toscana (è sepolto a Firenze nel Cimitero degli Allori): a volte cerco di ritrovare in certi particolari, lineamenti, contorni, frammenti delle sue isole, soprattutto quando penso che questo luogo è lontano dal mare, e che Böcklin visse in questa città lontana dal mare. Ma Firenze è la città dei cipressi, come tutta la Toscana, che è un po’ la regione della nostalgia. Stando lì ho capito che L’Isola dei Morti di Böcklin è il primo collage della modernità, perché è fatto con elementi presi qui e lì, non è un luogo omogeneo. I cipressi sono toscani e l’isola potrebbe essere un’isola del Golfo di Napoli (lui, tra l’altro, sposò una ragazza napoletana); oppure potrebbe essere un lago nordico. Quando penso all’affermazione della morte dell’arte fatta da Hegel, tramandata da altri, mi piace immaginare che sia nata proprio con la creazione di questo quadro, che riproduce un luogo del sublime, del terrore, del panico, ma anche della nostalgia, della tranquillità: è il luogo dell’eternità. Penso che la morte sia la soglia dell’eternità: dall’altra parte c’è un luogo che non ha nulla da invidiare al reale che è molto più faticoso, drammatico, carico di problemi quotidiani, di dolore, di malattia. Mi sento tranquillo nel sapere che esiste un quadro come questo di Böcklin: nel mio studio è dappertutto.
MR: Parliamo della tua casa in Toscana. Quella casa è stata una loggia, il luogo dei muratori, il luogo di coloro che, cominciando a sbozzare la pietra, rappresentano l’aspetto simbolico del lavoro che si fa dentro di sé, in un primo processo iniziatico di ricerca della Luce, della conoscenza. Questa casa è quindi il luogo — una sorta di futuro tempio — dove si può collocare il rapporto con il macrocosmo, osservare l’esterno dall’interno e l’interno dall’esterno, in un meccanismo dove l’osservazione non è passiva, ma è azione, fare per conoscere. È, in realtà, il deposito formale della valenza simbolica che hai conferito al tuo lavoro, ne riassume l’intenzione e ne documenta l’opera, il corpus delle opere che hai prodotto nel corso della tua attività. Come pensi di destinare l’utilizzo di questa casa, per chi la stai costruendo, o meglio, ricostruendo?
VP: La costruisco per chi vive oggi, per le persone. Mi fa piacere sapere che qualcuno fa un viaggio per venire a vedere questo luogo; inoltre, la creo per le nuove generazioni: questo è un luogo ancestrale e trovo che nella modernità questi luoghi stanno diventando sempre più rari perché l’uomo moderno, quando arriva in un luogo, la prima cosa che fa è scacciare gli dei, e renderlo un luogo profano. In questa casa sono depositati tutti i frammenti delle mie opere, delle mie mostre, che non hanno trovato altra collocazione in qualche museo o collezione e sono stati abbandonati a se stessi; prima di avere questo luogo, ero costretto a demolire le opere, specialmente quelle tridimensionali. La casa è diventata una specie di scatola, di contenitore che racchiude i frammenti delle mie opere che sono andate perdute, è diventato una specie di inconscio dell’artista. Penso che questo luogo sia una specie di “inconscio a cielo aperto” degli abitanti che vi vivono intorno, che hanno creato questa voragine; infatti c’è un tentativo continuo di occultare questo luogo, come un complesso di colpa, creandone a sua volta una specie di discarica. Ma, per quanto un materiale si possa depositare in questo luogo, non si riesce mai a riempirlo. Poi, tra questi depositi di qualsiasi natura, mi piace vedere come la natura, cioè la Vergine, ricostituisca sempre la propria verginità, cioè il verde, che continuamente ritorna, e non rimargina le ferite, ma le cela, perché le ferite stanno sempre nascoste. Quando cresce la vegetazione non si capisce se lì c’è una vera ferita: ci sono cumuli di macerie e immondizie che ti fanno constatare come la natura ricostituisca sempre una possibilità per il futuro, per l’uomo, di ritrovare le piante, gli uccelli, la vegetazione. Ho costruito un luogo in Toscana che si chiama Virginia Art Theatrum, Museo della Catastrofe o della Verginità, un museo non aperto al pubblico: mi piace questa idea perché io non sono a favore del pubblico, che è una massa amorfa. I musei sono aperti, come qualsiasi luogo di conoscenza, per le singole persone, che possono stare anche in gruppo, ma non devono mai essere definiti “pubblico”, perché il pubblico fa fuori le individualità e invece sarebbe interessante costruire un museo per le singole persone.
MR: La tua data di nascita, 12 luglio 1934, riportata nelle tue biografie, sospetto che sia una tua opera.
VP: Non è una verità, anche se ci sono molto vicino. Più o meno la mia data di nascita è quella, però sono state alterate alcune cose: 12 è 3 x 4, il settimo mese è 3 + 4, ecc. Si capisce che è tutto simbolico; naturalmente come dichiarazione è anche troppo ambiziosa, esagerata, enfatica, ma serve a capire, per chi la legge, l’artista nascosto, la sua dimensione intima (che probabilmente non avrebbe interessato nessuno), a favore di una visione più simbolica. Per esempio, diciamo che Cristo è morto a 33 anni, ma il 33 è un numero simbolico. Il 34 è un numero apocalittico, infatti non è detto che il Cristo sia veramente morto a 33 anni, come diciamo che è nato il 25 dicembre, ma il 25 dicembre nascevano tutti gli dei, è un solstizio, e il solstizio coincide con la nascita del profeta. Sarebbe interessante capire l’importanza del riflettere il reale verso il simbolico: che cosa è l’immaginazione, cosa è l’arte. L’arte è la creazione del proprio immaginario. Noi non sopportiamo il reale, perché il reale è la materia, il reale è il nostro corpo nudo che ci dà imbarazzo, lo sentiamo come una cosa angosciosa, preoccupante. Che cosa è l’immaginario? È quello che costruisce una maschera all’essere, quello che noi costruiamo con il nostro abbigliamento, con il nostro modo di pettinarci, il comportamento; tentativo, attraverso l’artificio, di creare un’immagine che nasconda il reale, la materia. Il selvaggio che non ha ancora scoperto le stoffe per crearsi gli abiti, si tatua il corpo per nascondere il nudo, crea un artificio, si mette le penne. Noi siamo degli esseri ibridi, siamo fatti di divinità, di umanità e anche di animalità e il nostro corpo appartiene all’animalità.