“La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda — e per guardarla bisogna esserne esclusi.” Queste parole di Roland Barthes continuano a far pensare anche trent’anni dopo l’uscita del suo celebre libro La camera chiara. Esse condensano lo spirito della fotografia e il ruolo dell’artista che “vede” un mondo e lo rappresenta restandone fuori. Parafrasando il semiologo francese, che forma sta prendendo la cosiddetta “civiltà delle immagini”? E che contributo può apportare l’arte nel prossimo futuro, e in special modo la fotografia, se oggi viviamo, conosciamo e sentiamo massimamente attraverso le immagini?
Nonostante l’avvento dei flussi visivi nelle reti (Flickr, YouTube, MySpace, ecc.) e la produzione quotidiana di fotografie di massa di ogni genere, la civiltà delle immagini non sembra mettere in crisi il contributo della fotografia alla ricerca artistica. Sollecitati dalla marea d’immagini passate e presenti, le giovani generazioni d’artisti guardano a questa nuova pangea come a una risorsa, un bacino di energie e idee a cui rivolgere il proprio sguardo sia dal punto di vista delle dinamiche visive e relazionali, che della selezione di materiale iconografico utile per i loro lavori.
Anche loro, come Barthes, sembrano ricercare una “storia degli sguardi” sul tempo e sull’esistenza delle cose, che significa attivare un campo di relazioni e nessi tra immagini di varia natura. Una storia della cultura visuale da non confondere con l’idea di “collezione di sguardi”, che invece è ciò che tanta fotografia continua a fare oggigiorno.
Sdoganato dalla dimensione dello specifico fotografico, il linguaggio fotografico continua ad attrarre gli artisti per la sua capacità di simulare la realtà smaterializzandola, creando un doppio iconico, o un ready made del reale. La nostra civiltà ha trasformato le immagini in soggetti che vivono autonomamente, oltre le intenzioni dell’autore.
Lo sguardo dell’artista non può limitarsi al particolare, alla singola fotografia; la sfida del futuro è dotarsi di una visione sempre più trasversale, rizomatica, connessa con il resto del mondo, volta a ibridare l’arte con le forme e i nuovi linguaggi che abitano la contemporaneità, senza distinzioni di genere. Una transmedialità basata sull’attraversamento mentale e sull’esperienza di ambiti disparati, sull’uso di oggetti già “informati” da altri, che pone sullo stesso piano d’indagine le immagini private e pubbliche, sociali e politiche, religiose e scientifiche, artistiche e non, professionali e vernacolari, interrogandosi sul loro ruolo ed esplorando la loro azione tanto in termini di poiesis quanto di valore culturale. L’interesse è incentrato sul carattere di pura informazione dell’immagine e sul suo corredo culturale.
Il futuro della fotografia risiede in questa nuova esistenza, sempre più rivolta alle forme di esperienza visiva e mentale che sono connesse all’intero dominio delle immagini. La loro forza ermeneutica consiste in moderne pratiche di montaggio e di postproduzione con accostamenti inediti, insoliti, extra-linguistici, magari frutto di autorialità multiple e non solo dell’artista.
In Italia diversi artisti praticano la fotografia all’interno di un discorso più ampio e generale sui dispositivi dello sguardo e sulla cultura visuale. Il mondo che emerge dalle immagini è molto diverso da quello che nasce dalla parola o dalla scrittura. L’utilizzo d’immagini diverse rientra in una “logica del mostrare” che genera senso in alternativa ad altri linguaggi. Questa è una delle ragioni che porta gli artisti a lavorare sugli archivi e sui flussi visivi delle reti, sulla memoria, sulla rappresentazione fotografica e filmica della Storia, oppure a riflettere sul potere delle icone in relazione a questa logica.
La storia delle immagini è il fulcro della ricerca di Linda Fregni Nagler. L’artista raccoglie centinaia di fotografie degli albori, ferrotipi, lanterne magiche, che riutilizza in quanto “indice” dell’inconscio fotografico di un’epoca. Oltre a ristamparle o a realizzarne di nuove ispirandosi ai generi fotografici ottocenteschi, recentemente Fregni Nagler ha tradotto il dispositivo delle lanterne magiche in una performance composta dalla proiezione di lastre fotografiche originali in vetro (Things that Death Cannot Destroy, 2010), conferendo nuova vita a un repertorio visivo di mondi che non esistono più e a un congegno che è stato precursore del cinema. A ogni nuova performance l’artista cambia la sequenza delle immagini da proiettare.
Una pratica di riflessione sulle origini della fotografia atta a riattualizzare il valore dell’obsolescenza (sulla scia di Walter Benjamin e Marcel Broodthaers) e a reinventare il medium fotografico, intervenendo sia sulle tecniche di produzione delle immagini sia su quelle di presentazione. Questo tipo di reinvenzione è portato avanti anche da altri due autori come Monica Carocci e Davide Tranchina. Da tempo Carocci racconta il mondo attraverso lo sguardo vintage del bianco e nero, eternizzando così il tempo dell’immagine in un presente esteso e aperto ad altri possibili sviluppi. Le sue fotografie sono il risultato di una serie d’interventi manuali realizzati in camera oscura durante la fase di sviluppo dei negativi da pellicola. Abrasioni, bruciature, segni ed effetti cromatici conferiscono nuova vita alle immagini pur conservando le sfumature e le suggestioni della fotografia d’antan.
Tranchina espande la dimensione fantasmatica del processo fotografico in una visionarietà onirica, resa possibile grazie al procedimento dell’impressione a contatto. Le impronte di oggetti di uso quotidiano, senza un particolare fascino, si depositano sulla carta fotosensibile producendo delle immagini che successivamente l’artista seziona, isola, ingigantisce e rifotografa. Tranchina crea un universo in bianco e nero di visioni effimere, sublimi nella loro spettralità, dove il massimo dell’obsolescenza (la sciadografia di Henry Fox Talbot) corrisponde anche al massimo di digressione dalla realtà.
Gli archivi rappresentano un potenziale iconografico immenso, un universo di punti di vista da riscoprire e a cui attingere per realizzare opere o progetti incentrati sulla visione del tempo, sull’antropologia dello sguardo, sui modi di rappresentazione della realtà passata e presente. Gli archivi pongono anche delle questioni di natura politica e sociale relative all’utilizzo delle immagini e alla loro fruizione.
La ricerca sugli archivi e l’impiego d’immagini di repertorio sono presenti nel lavoro di diversi artisti quali Rossella Biscotti, Gea Casolaro, Cristian Chironi, Rä di Martino, Samuele Menin, Moira Ricci e Antonio Rovaldi, ciascuno declinando il tema con modalità molto personali. Nel lavoro di Biscotti la fotografia è assunta all’interno di un processo di riflessione sul valore culturale e storico delle immagini, soffermando lo sguardo sul confronto tra visione e immagine mentale della realtà. Per esempio, nel progetto Cities of Continuous Lines (2006) l’artista esplora la relazione concettuale tra ideologia, potere e la loro rappresentazione fotografica.
Gea Casolaro utilizza l’immobilità viva della fotografia per realizzare una diversa percezione temporale dei luoghi e degli eventi che li distinguono, unendo nello stesso spazio fotografico il punto di vista del passato con lo sguardo contemporaneo, grazie a un fotomontaggio d’immagini d’archivio; tale sostrato culturale delle fotografie d’epoca emerge chiaramente in Visioni dell’EUR (2002-2006). Anche nel progetto di Rä di Martino, Photos from Imaginary Films (2006 – in corso), gli scatti in bianco e nero fatti dall’artista a vecchie foto trovate ricordano nella loro sequenzialità i fotogrammi di un film d’autore del passato.
I libri diventano un luogo di prelievo fotografico per Antonio Rovaldi e per il suo progetto Paesaggi strappati (dalla serie “America”, 2009 – in corso). L’artista realizza una “mappa” visiva del mondo, fotografando le doppie pagine strappate dalle vecchie guide di viaggi e dai libri di turismo: dall’insieme di questi “sguardi” emerge una visione panottica sul divenire del paesaggio in relazione al tempo e al modo di rappresentarli.
Anche per Cristian Chironi il volto in bianco e nero del tempo e della memoria è al centro di una serie di lavori dedicati al calcio con citazioni e rilievi autobiografici. Le sue immagini rappresentano l’atto finale di un processo artistico che coniuga realtà e finzione, memoria e racconto, performance e fotografia. In particolare, la serie “Propp” (2008) è costituita da un collage visivo che accosta le fotografie di Pasolini calciatore a quelle di Chironi — ritratto nella medesima posa dello scrittore —, accomunando i due vissuti in una riflessione sul linguaggio dell’arte e del gioco. La memoria assume invece connotazioni psicologiche nel progetto di Moira Ricci dedicato alla madre scomparsa (20.12.53-10.08.04, 2004). L’artista ha realizzato una biografia fotografica della relazione con sua madre, una sorta di “second life” dove appare da adulta accanto alla madre ritratta all’epoca della sua infanzia o giovinezza. Inserendo se stessa grazie al fotomontaggio, l’artista crea una cronologia impossibile, se non nel gesto artistico di riscrivere idealmente la loro storia.
Samuele Menin unisce invece l’intervento architettonico site specific alla visione d’immagini selezionate dagli archivi di riviste d’arte, libri e luoghi densi di memoria. Nel suo ultimo intervento ambientato alla galleria neon>campobase di Bologna (Fatti e basta da versare dentro a sé, 2010), l’artista ha messo a disposizione del pubblico l’archivio dello spazio, invitandolo a guardare con gli occhi di oggi la storia dell’arte italiana degli ultimi decenni passata di lì. Alcune lavagne luminose proiettavano nello spazio architettonico le immagini scelte dagli spettatori direttamente dall’archivio.
Altri artisti riflettono più sulla natura indiziaria della fotografia, che inseriscono all’interno di progetti complessi e articolati per “tracciare” un evento o rendere manifesto un fenomeno. È il caso di Giorgio Andreotta Calò e della sua serie di pellegrinaggi a piedi documentati da istantanee che rivelano i cambiamenti della memoria dei luoghi e dello stesso artista (Il prodigioso Cristo di Limpias, 2008). O anche di Meris Angioletti, che rispolvera la pratica obsoleta del romanzo fotografico per raccontare lo svolgersi di un accadimento, rivelandone aspetti inusitati e misteriosi (Haunted, 2008). Reinvenzione dei dispositivi, adozione di punti di vista insoliti, transmedialità e costruzione di una memoria differente, connessa con il fare artistico e immanente all’atto fotografico, sembrano presagire lunga vita alla fotografia.