Valentina Sansone: Scratching on things I could disavow: a history of art in the Arab world (Appunti su cose che potrei ritrattare: una storia dell’arte nel mondo arabo) è il titolo del tuo nuovo progetto: tre opere che costituiscono ognuna i diversi set di una commedia teatrale a cui stai lavorando. In linea generale, il progetto analizza il processo di creazione di nuove infrastrutture destinate all’arte contemporanea nel mondo arabo. Oggi Dubai è uno dei più grandi cantieri nel mondo. Per il 2015 sono attesi nuovi musei e centri di ricerca con la diretta partecipazione degli studi più prestigiosi del mondo (Frank O. Gehry, Jean Nouvel, Foster and Partners e Rem Koolhaas): un vero real estate dell’arte. Valuti questa espansione come un nuovo processo creativo e perché?
Walid Raad: Da un lato, si tratta di una specie di fenomeno. È chiaro che vogliamo nuovi musei, nuove scuole, più critici d’arte… Probabilmente, le stesse persone che dieci anni fa investivano in compagnie in Oriente o in Occidente oggi investono quegli stessi soldi nel sistema dell’arte contemporanea in Medio Oriente. Prima di trasferirmi a New York lavoravo in Libano; lì non abbiamo mai avuto premi per gli artisti, né centri di ricerca… Di colpo tutto questo sarà disponibile, almeno nel Golfo. È un dato incoraggiante. Quello che per me è preoccupante non è tanto cosa stanno o non stanno costruendo, o quale programma sarà presentato in questi musei. Non si tratta di un gruppo di persone che comprano un modello di cultura per imporlo nel mezzo del deserto. Se Dubai mette in piedi una fiera d’arte ma nient’altro che una fiera, o niente di più che il Guggenheim, allora abbiamo un problema. Quello a cui si sta lavorando in quelle regioni è, invece, un’infrastruttura molto più vasta. Il rischio maggiore consiste, piuttosto, nel rapporto tra arte e tradizione, in quella che potrebbe pretendere di essere la nostra genealogia dell’arte. Compilare una lunga lista di persone che hanno lavorato come artisti negli ultimi cento anni non è come gettare luce sugli artisti del mondo arabo. Spero che il Guggenheim o il Louvre saranno sensibili a tutto questo.
VS: In che modo una nuova infrastruttura può essere influenzata dai conflitti sociali, politici e militari di un Paese?
WR: Possiamo dire con certezza che quello che sta accadendo nel Golfo è il risultato di fattori politici ed economici, come per esempio la forte infl uenza esercitata dal Medio Oriente sul petrolio, il che intensifi ca un tipo di richiesta a vantaggio di un’economia che si basa sul settore petrolchimico e su quello turistico. O, ancora, possiamo collegare l’apertura del Louvre in Medio Oriente al rapporto tra Francia ed Emirati Arabi. Questi sono tutti fattori sociali e politici a cui non è difficile risalire, ma quello che trovo più interessante, è proprio ciò che non è sotto i nostri occhi. Nel campo della robotica e della nanotecnologia avvengono tutti i giorni cambiamenti così radicali che tra trenta, o forse quarant’anni, la stessa idea di essere umano sarà modifi cata. In poco tempo la guerra in Afghanistan potrebbe non signifi care più nulla se paragonata alle trasformazioni che la genetica subirà nei prossimi cinquant’anni. Per questo, auspico piuttosto il lavoro di filosofi , artisti e pensatori capaci di individuare questi cambiamenti e di informarci su questo tipo di eventi.
VS: È a questo punto che entrano in gioco le teorie di Jalal Toufic?
WR: Sappiamo bene che durante una guerra, la cultura è solitamente colpita in modo “materiale”, come in Iraq. I musei sono distrutti e le biblioteche bruciate, i ministeri non ricevono più finanziamenti e gli insegnanti non hanno un lavoro. Inoltre, questi effetti possono essere a breve o a lungo termine: per restaurare un’opera d’arte possono volerci cinquant’anni, o quindici per ricostruire una collezione. In uno dei suoi scritti, Jalal Toufi c si è chiesto se alcune guerre possano causare effetti non solamente “materiali” ma anche “immateriali”. Toufic ha analizzato un fenomeno interessante: nel caso di una grave catastrofe, per esempio, gli effetti sull’arte e sulla cultura di un Paese sono di natura “immateriale”, il che rende impossibile persino vederli. Gli artisti, dal canto loro, sembrano sentire l’urgenza di far risorgere la cultura nei momenti successivi a questo tipo di eventi. Non sono sicuro che nel mondo ci sia mai stato un disastro capace di generare un effetto di questo tipo, ma credo che l’arte e la cultura siano stati colpiti più di una volta in modo “immateriale”. Perciò, quando sono di fronte a un lavoro di tradizione araba — e non parlo di un’opera di mille anni fa — il dubbio che sia stato affetto da una “sparizione a seguito di un’immane tragedia”(per citare letteralmente Toufic) è reale, e il mio stesso lavoro diventa inaccessibile. Quando vedo i miei lavori in galleria, sono lì, io li vedo, ma quando devo sviluppare un progetto sulla mia produzione, automaticamente loro si “riducono” e assumono un altro aspetto. Allora mi chiedo se non si debba ricollegare tutto alle crisi sofferte dal mondo arabo nell’ultimo secolo e se il forte sviluppo in queste aree non possa trasformarsi solo in un’immagine negativa. Tutti i musei, tutte le infrastrutture nel mondo rischiano di diventare un’immagine negativa. È come se qualcuno ripetesse all’infinito: “Abbiamo l’arte! Abbiamo la cultura!”. Non penso che nel mio lavoro avvenga un processo di sottrazione, ma che ci sia piuttosto qualcosa in più.
VS: Che intendi?
WR: Cerco di vedere che cosa il mio lavoro è in grado di mostrarmi. Io ho una miniatura, non ho l’assenza di un oggetto, ma qualcosa che possiede una forma particolare rispetto alla quale andare oltre… Conosci la Sindrome di Capgras?
VS: Capgras?
WR: È una particolare condizione della mente che ti impedisce di riconoscere le persone attorno a te. Per esempio, tua madre: lei appare esattamente la stessa persona, mangia, dorme esattamente nello stesso modo, ma per te è un semplice impostore. Non sono affascinato tanto dalla patologia, quanto dall’aspetto del doppio. Nel mio lavoro l’arte è doppia, come in psicologia.
VS: The Atlas Group si è concluso nel 2004. Al centro dell’attività del collettivo c’era soprattutto l’idea di archivio. Sotto questo pseudonimo hai catalogato oggetti immaginari provenienti da personaggi immaginari. Che funzione ha avuto il documento per The Atlas Group?
WR: In The Atlas Group c’era la presenza di un’ulteriore nozione, quella del trauma, e l’idea che il ricordo di alcuni eventi violenti potesse essere abbandonato, pur lasciando delle tracce. In psicologia, il sintomo è direttamente collegato all’incidente che lo ha provocato e, generalmente, per scacciarlo via si risale al preciso momento in cui si è manifestato per la prima volta. Per The Atlas Group, il documento era esattamente la stessa cosa: trattavo i documenti come i sintomi isterici di una cultura. Così, ho ipotizzato che le guerre civili libanesi avessero prodotto delle sindromi isteriche che erano dappertutto nella nostra cultura, e ho sentito il bisogno di raggrupparle e di sistemarle in un archivio, per evitare di ridurre la storia delle guerre a una semplice cronologia di massacri e invasioni, o a delle psico-biografi e delle intenzioni delle rispettive parti politiche e sociali. Non si può conoscere la data di un evento se questo non è stato vissuto, e dunque assimilato, da una memoria collettiva.
VS: Nel 2007 la Biennale di Venezia ha ospitato la prima partecipazione nazionale del Libano dopo centododici anni nella storia di questa manifestazione.
WR: Nel 2007 la gallerista che cercò di mettere insieme il primo padiglione nazionale del Libano aveva scelto me e Bernard Khoury come artisti partecipanti. Ben presto tutto si era ridotto a una questione fra pochi: iniziative private, soldi di privati, artisti di gallerie private… tutto quello contro cui dovremmo combattere! Poi il progetto fallì. Ma, in occasione della Biennale di quest’anno, mi sono detto: perché non riproporre il Padiglione del Libano del 2007? Stesse opere d’arte, stessi artisti, stesso spazio… non si trattava di un’opera di critica istituzionale, mi interessava il processo di contraffazione. Sarebbe ora che un artista arabo scegliesse di trarre ispirazione da un artista più vecchio, non mi è mai capitato finora di trovare qualcuno nel mondo arabo che lo abbia fatto.