Non so voi, ma quando mi ritrovo a visitare una mostra esclusivamente di performance, spesso mi identifico in una delle guide indiane che popolavano i film western della mia infanzia, impegnate alla ricerca perenne di tracce e di indicazioni per seguire un fuggitivo. Logicamente in mostra non c’è nessun fuggitivo se non la performance stessa che va ricostruita attraverso gli oggetti e gli elementi che l’artista ha deciso di lasciare come tracce. Le opere raccolte in questa mostra sono i resti delle performance che hanno animato il Festival “Performazioni” organizzato dal museo Maga, nei mesi di settembre e ottobre, a cura di Vittoria Broggini. Si apre con Jesus, progetto di Nico Vascellari, in cui l’artista cerca di creare un terzo essere dall’unione di Klaus Kinski e GG Allin. Una performance musicale e parlata come testimonia l’installazione di amplificatori con un nastro magnetico che sospeso nel vuoto diffonde il risultato della serata. Tracce sonore anche per Agustinian Melody della Socìetas Raffaello Sanzio: un tavolo ricoperto di strisce di stoffa tagliate e ricucite in maniera ossessiva permettono di immaginarsi un gruppo di persone raccolte attorno a esso impegnate appunto a parlare, tagliare e cucire non solo le stoffe ma anche le parole che dunque a pezzetti ritornano a noi attraverso la registrazione. Molto più fisico il lavoro di Giovanni Morbin che presenta la sesta delle sue ricerche intitolate Ibridazione: una giacca appositamente cucita con numerose asole che indossata dall’artista per le vie della città diventa manifestazione materiale delle relazioni tra persone, unendo proprio grazie alle asole i passanti all’artista stesso. Sembra uscito invece da un episodio tra Mac Gyver e Hazzard il progetto di Michele Bazzana, una rampa di pannelli solari che alimenta una motocicletta ideata e guidata dall’artista per compiere un salto di circa un metro; un atto e una performance nata più per soddisfare i sogni dell’artista stesso che per lo spettatore. Si prosegue con i Knobotiq Research, duo formato da Yvonne Wilhelm e Christian Huebler, che presentano qui un’installazione interattiva basata sul Kotomisi, l’abito tradizionale delle schiave dell’ex colonia del Suriname utilizzato, a seconda dei motivi decorativi, per trasmettere dei messaggi. Gli artisti ne hanno fatto una rilettura moderna trasformandolo in pattern digitali che su un grande schermo interagiscono, grazie a un microfono, cambiando forma a seconda del volume e delle frequenze della nostra voce. Microfoni che si collegano virtualmente al lavoro del gruppo dei King Tongue (Michele Robecchi, Gino Lucente e Bruno Cover), band che qui, con il supporto di Yoshua Okón, diventa un collettivo artistico proponendo un concerto (in mostra il video), in cui i ruoli dei musicisti vengono interpretati da attori generando così una riflessione sull’identità. Gli Strasse (Francesca De Isabella e Sara Leghissa) danno invece una rilettura più intimista della performance proponendo Driven-studio per uno spettatore. Come si comprende già dal titolo, il progetto è dedicato a un singolo spettatore che viene invitato in macchina dalle artiste per un viaggio con tappe predefinite, lungo le quali le artiste stesse hanno posto scene paradossali. Dal singolo si ritorna poi al sociale e alle narrazioni con gli Ze Coeupel (Ambra Pittoni e Paul-Flavien Enriquez Sarano) che hanno creato una piattaforma interattiva invitando alcuni rappresentanti delle comunità extracomunitarie di Gallarate a raccontare alcune delle loro personali esperienze messe poi a disposizione dello spettatore. La voce e il sonoro sembrano quindi essere il mezzo di testimonianza preferito dai perfomer come in Macchina delle lettere di Sergio Limonta: una serie di microfoni e di libri dalla copertina anonima e una serie di istruzioni. Lo spettatore è invitato a leggere una parola a caso da ciascuno dei libri ma la voce viene diffusa in un ambiente diverso da quello in cui ci si trova dando un senso di straniamento. Una mostra, per concludere, di tracce di performance, con cui si cerca di trasmettere la tensione e la forza del gesto compiuto dall’artista allo spettatore. Ma devo confessarvi che durante la visita a un certo punto si è materializzata la figura di una donna in maglia rossa, gonna a scacchi bianca e nera, grembiule nero e scopettone blu e per un attimo in me si è insinuato il dubbio: personaggio o performance? Chissà, non ho trovato nessuna didascalia relativa al lavoro, ma mai dire mai… e vi assicuro che per la vita che emanava era davvero una bella performance.
29 Luglio 2015, 2:45 pm CET
When the Impossible Happens di Samuele Menin
di Samuele Menin 29 Luglio 2015MAGA, Gallarate.
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