Massimiliano Gioni/David Hunt: Quando organizzi una mostra usi le fotografie per creare delle installazioni, con immagini appese a fili o legate al soffitto. È un territorio che stai esplorando, al di là della fotografia pura e semplice?
Wolfgang Tillmans: No, niente di nuovo: ho sempre lavorato così. Le mostre in galleria sono un lavoro sullo spazio. Naturalmente mi interessano anche gli altri media propri della fotografia — giornali, cartoline e stampe — ma in mostra odio questi esercizietti vanitosi, con le fotografie tutte allineate alla parete. Il modo in cui espongo il mio lavoro deriva da una ricerca sul formato fotografico e i diversi sistemi di stampa. Ho deciso di rinunciare alle cornici e di stampare con stampanti per computer: così ottengo foto piuttosto grandi senza dover lavorare su oggetti lucidi e ingombranti, con tanto di light box e cornici di legno.
MG/DH: Quindi il modo in cui esponi il lavoro influenza anche il tuo stile fotografico.
WT: No, quando scatto una foto, non penso a come sarà la mia prossima installazione: in quel momento devi pensare solo a ciò che ti sta davanti e dimenticarti della destinazione finale del lavoro. Non mi importa dove andrà a finire, se in un giornale di moda, di arte o in qualche libro. Ciò che mi interessa davvero è l’esperienza del momento in cui scatti la foto, il momento in cui vinci la pigrizia e fai un altro scatto.
MG/DH: Ma di fatto il tuo lavoro cambia a seconda del luogo in cui lo vedi. Ad esempio in un giornale di moda le tue foto acquistano quasi un senso critico, contro le fashion victim. Persino Kate Moss sembra una ragazzina normale, quando la ritrai tu.
WT: A dire il vero, non mi interessano le critiche dirette ed esplicite. Cerco piuttosto di creare delle alternative possibili, nuovi comportamenti. Voglio esporre la mia idea di ciò che è sano e folle, di ciò che è appropriato e inappropriato. Criteri che ovviamente non corrispondono a quelli della gente comune.
MG/DH: Quindi la fotografia è un mezzo per diffondere un nuovo stile di vita? È per questo che alcune tue foto possono sembrare scioccanti?
WT: Non mi interessa lo shock in sé. In realtà ho scoperto che la gente è turbata da immagini più sottili. Il problema con i grandi provocatori come Serrano è che riesci a identificarli come tanti e quindi sai già in che modo affrontare i loro lavori. In fondo, siamo abituati a maneggiare linguaggi estremi: le immagini davvero destabilizzanti credo siano quelle più normali e, direi, positive. Mi piace quando i personaggi di una foto non si vergognano del loro aspetto e non cercano di scusarsi. I miei modelli non dicono: “Ehi, guardami, sono scioccante”, né chiedono perdono per il modo in cui appaiono. Sono orgogliosi: siamo una alternativa possibile, ecco cosa dicono. È per questo che le mie foto non devono sembrare troppo studiate, altrimenti finirebbero per assomigliare a quei lavori organizzati a tavolino, pensati per scioccarti.
MG/DH: Ma in realtà anche tu usi delle tecniche precise per dare questo senso di immediatezza. È pur sempre autenticità sofisticata.
WT: Vedi, il problema è che tutto è sofisticato: noi impariamo a vivere e a comportarci guardando la televisione, i film e qualche programma porno. Ma questo è il punto cruciale del mio lavoro: io non condanno questo spirito di emulazione. La natura umana è proprio questo miscuglio di comportamenti spontanei e di altri assimilati chissà dove. È proprio questa la mia ossessione: il modo in cui la mia generazione crea il proprio senso di identità, utilizzando e riciclando comportamenti che vengono dai media e dalla personalità di ognuno.
MG/DH: C’è un forte senso di appartenenza, anche generazionale, in quello che dici. Questa componente di partecipazione o di intimità è necessaria per catturare l’autenticità di cui parli?
WT: No, direi di no. Il problema è che tu, come gli altri, tendi a identificare autenticità e intimità. Ma questa non è la mia posizione: non ci sono gradi diversi di verità e di autenticità. Ciò che mi interessa davvero è il risultato finale: la foto sembra intima? È questo il problema. Lo spettatore deve entrare nell’immagine, deve dimenticarsi che sta guardando una composizione artefatta. Deve entrare nel mondo che quella foto descrive. Altrimenti finisci a lavorare con quelle stampe lucide e pompose, che allontanano lo spettatore. Certo, potrei raccontarti quali scatti sono più intimi di altri, ma non è importante, perché in alcuni casi l’alienazione o la repulsione sono reazioni vere, autentiche. Non si possono fare distinzioni a tavolino: questo è un compito che lascio alla fotografia a effetto, ai provocatori.
MG/DH: Hai parlato di “alternative” ed è un argomento sul quale vorremmo tornare.Quando hai iniziato a pubblicare le tue foto nei giornali di moda, eri una specie di outsider. In pochissimo tempo il tuo immaginario è stato inglobato dai media, che hanno iniziato a usare personaggi molto simili ai tuoi. Ti sei sentito mai costretto a cercare nuove alternative, nuove generazioni per sfuggire ai media?
WT: No, io non ho il culto della marginalità. Anzi credo che tutto questo look neoprimitivo, da postpunk metropolitani sia più che
altro una posa: questi ragazzini fanno di tutto per diventare degli emarginati. Nel mio lavoro più che altro cerco di cogliere la bellezza della normalità. Magari i miei modelli se ne stanno a torso nudo, in blue jeans e hanno i capelli rossi, ma credo che ci sia qualcos’altro oltre questo aspetto: c’è una psicologia dietro questi comportamenti. La vera bellezza viene dall’interno, come dice una pubblicità tedesca. Non vado in giro alla ricerca di nuovi mostri. Te ne accorgi se guardi il mio lavoro nel suo insieme: ci sono paesaggi, nature morte, persone più anziane. Questo è un aspetto del mio lavoro che si nota di più oggi: il pubblico si sta accorgendo che non fotografo solo punk e ragazzacci.
MG/DH: Cosa cambia quando fotografi nature morte? Cerchi di creare momenti epifanici, di catturare il vero aspetto degli oggetti?
WT: L’idea di epifania si fonda comunque sull’opposizione vero/falso. È un atteggiamento che non mi interessa. E per giunta l’immagine di una persona in cucina è una natura morta, proprio come la foto di un pompelmo: in quel preciso momento registro la bellezza dell’ordinario e non importa che si tratti di bottiglie di latte o di qualcuno a casa propria.
MG/DH: Ma ammetterai che c’è una differenza tra i ritratti e gli oggetti. Alcune tue nature morte sembrano immagini astratte, come le foto di blue jeans gettati sul pavimento.
WT: Io non ho mai ricevuto un’educazione accademica, quindi all’inizio della mia carriera non mi preoccupavo affatto delle differenze tra generi. Non cambiava niente se facevo un ritratto, una natura morta o un paesaggio. E sono felice che sia andata così, perché mi ha lasciato molta libertà: non ho mai avuto un archivio fisso di immagini e modelli da rispettare. Naturalmente, come qualsiasi artista, ho cercato di mantenere un percorso, ma non ho mai pensato di dedicarmi a un genere e poi all’altro, facendo differenze. Il mio lavoro è un equilibrio tra distrazione e progetto. L’importante è non essere mai troppo sicuri di sé.
MG/DH: È proprio questo atteggiamento libero che trasmettono quelle foto dei jeans: sono nature morte, ma sono anche astratte e allo stesso tempo parlano della persona che indossava quei pantaloni. In un certo senso sono intime…
WT: Perché sono immagini che hanno un significato molto preciso e privato. La foto con i jeans abbandonati sul calorifero l’ho scattata a casa dei miei genitori. Quel calorifero l’ho fissato migliaia di volte, quando me ne stavo seduto sul cesso a casa mia. È un oggetto che conosco a memoria: conosco il calore che emanava. So che non fa una grande differenza per lo spettatore. Ma è importante che ci sia una specie di risonanza emotiva nelle mie fotografie: è l’unica sicurezza nel mio lavoro. Se ho provato una sensazione forte nel momento in cui ho scattato la foto, so che quei sentimenti risuoneranno negli spettatori. E così torniamo al problema dell’intimità: cerco sempre di creare un legame con gli oggetti e le persone che ritraggo, anche se si tratta di rapporti alienati. Odio il cinismo e la superficialità. Ecco perché evito le emozioni dirette o ovvie. Mi piacciono le cose neutre.