Yan Pei-Ming presenta un ampio corpus di opere che coralmente ne dipingono un “autoritratto”, da cui il titolo della mostra “Yan Pei-Ming con Yan Pei-Ming”. L’individualità di Ming è declinata e definita in rapporto a diverse tematiche/generi, suddivisi in quattro principali: il paesaggio, la religione, i parenti, la vita e la morte. Grandi oli bicromi, bianco su rosso o su nero, ritraggono figure universali e iconiche — Mao, la Madonna, il Papa, Buddha, l’imperatore Pu Yi, ma anche suggestioni pop, come Bruce Lee — o intime e imprescindibili, come quella del padre, ritratto con dimensioni epiche, ma in uno stato di prostrazione e sofferenza, un “memento vivente”. In generale, tutte le opere sono pervase dalla sensazione della perdita: le rapide, ampie pennellate colgono la transizione velocissima dell’esistenza come un fascio fibrillante e caduco d’energia, elevando sulla tela un umore esistenzialista – culturalmente la stessa letteratura cinese ne è influenzata, dagli anni Settanta in poi, in reazione al senso di alienazione e rovina post-rivoluzionaria. La perdita si manifesta con maggiore gravità nelle messe in scena della propria morte, che Ming allestisce freddamente, come esperimento o prova generale di un momento inevitabile: lo si vede steso all’obitorio, impiccato e moltiplicato in una moltitudine di teschi. I paesaggi sono sempre “internazionali” nelle titolazioni, cioè ostili, vaghi, anonimi, persi nella nebbia o in simboliche profondità boschive. La parte più toccante è quella dedicata a una serie di acquerelli che ritraggono la vita, identificata completamente con l’infanzia. Ming costruisce grandi acquerelli monocromi attraverso macchie di colore che si intersecano e sovrappongono in un’emersione quasi psichica e che, tuttavia, tecnicamente conservano il sapore di una tradizione antica e raffinatissima. I volti degli infanti, neonati, interrogano con occhi appuntiti lo spettatore o riposano persi in sonni profondissimi.
Al pian terreno è presentata la personale del rumeno Victor Man “On Relative Loneliness”. Anche in questo caso, viene indagato un sentimento di perdita, ma inesplicabile, indicibile, attraverso un uso concettuale e quasi onirico di immagini estrapolate da media pulp, riviste di pin-up o immaginari feticisti. Raffinate combinazioni di figure sadomaso si alternano a quelle di divinità decadute, incapaci di consolare o convincere: in un lightbox una foto coglie un crocifisso distrutto, le braccia del Cristo penzolanti e private di un corpo. Man raccoglie e distribuisce con estrema eleganza e rarefazione tracce di una solitudine ineludibile, di un fallimento storico e morale, dell’eclissarsi di ogni certezza. Il solo baluardo a questo lutto affettivo e spirituale sembra rappresentato da quello di una trasgressione formulaica, com’è appunto quella feticista, ulteriore placebo per la solitudine. Luca Vitone, da sempre fine artista antropologo, capace di tradurre e coniugare esteticamente istanze politiche e disposizioni sentimentali, presenta, fra gli altri, un lavoro inedito: un’installazione sonora distribuita in vari punti di Bergamo, in cui gli immigrati vagheggiano il proprio ritorno a casa. In mostra, invece, alcuni pilastrini lignei raccolgono i migranti italici fra i molti spettatori: ci si avvicina per carpire, mossi da un desiderio nostalgico, i canti che si diffondono dalle forme aperte delle regioni italiane intagliate sulla loro sommità.