Hans-Ulrich Obrist: Puoi raccontarci di una delle tue prime mostre, che si svolse in un teatro?
Yoko Ono: Bene, realizzai alcuni pezzi. Cominciammo con una sorta di bancarella sulla quale mettere degli oggetti d’arte. Essa si trovava al centro e io la nascosi, e le persone cercavano di capire cosa stesse accadendo. Questo era l’inizio, e alla fine andammo tutti sul palco su delle biciclette e pedalammo tra le sedie e l’esterno del teatro.
HUO: E poi c’è stata la mostra leggendaria con John Dunbar, che è stato il passo successivo. Fu lui a invitarti a fare una mostra alla Indica Gallery.
YO: Fu la mia prima mostra a Londra, sì.
HUO: E questa mostra gioca un ruolo importante per noi perché alcuni pezzi sono stati esposti di recente alla Serpentine.
YO: La preoccupazione che avevo, naturalmente, era che le persone potevano percepire che li avevano visti prima, ma ho voluto includerli, perché ciò che importa non è la quantità di tempo che è passato, ma piuttosto il tempo contenuto in ogni lavoro. Ogni lavoro ha in sé un tempo eterno.
Julia Peyton-Jones: C’è qualcosa di molto interessante nel mettere alcuni di questi lavori assieme. È come un detonatore per la memoria ed è anche un modo per presentare queste opere alle persone che non le conoscono. In questo modo, giocano sia con il presente che con il passato. Ci sono molti tuoi lavori interattivi: per penetrare davvero dentro di essi, hanno bisogno di coinvolgere lo spettatore. Inviti alla partecipazione.
YO: Sai, i miei lavori sono nati a causa della mia natura ribelle. Non mi piace il fatto che gli artisti — compresa me stessa — creano qualcosa pensando che possa durare per l’eternità senza mai cambiare. Gli artisti, me compresa, non volevano che le persone toccassero e cambiassero i nostri lavori. E io pensavo, “Perché non abbiamo semplicemente dimenticato questa idea? Dovremmo distruggere i lavori perché la cosa più importante è cambiare e noi vogliamo che le persone partecipino al cambiamento.” I lavori cambiano e cambieranno comunque. Non importa quanto noi cerchiamo di afferrarli. Se la forma non cambia, il suo valore cambierà. Ecco quello che ho fatto.
JPJ: E naturalmente, il cambiamento è molto collegato ai tuoi lavori performativi, nel senso che tu cambi e l’opera è in un flusso. La performance è stata parte del tuo lavoro fin dagli esordi?
YO: Le prime cose pubbliche che ho fatto furono ai concerti di Chambers Street. All’epoca, gli unici luoghi dove i musicisti potevano avere a disposizione una piattaforma per esprimere se stessi pubblicamente era la Town Hall, Carnagie Hall e Carnegie Recital Hall, che era uno spazio molto piccolo. Insomma, c’erano quei tre posti e basta. E anche personaggi come John Cage, Stefan Wolpe, Edgar Varèse ed Henry Cowell potevano andare solo al Carnegie Recital Hall. Nessuno dei miei amici né io avevamo uno spazio per presentare i nostri lavori. Così ho deciso di creare un luogo per artisti, compositori e musicisti affinché potessero esprimersi senza sentirsi come se dovessero conformarsi a un certo tipo di creatività. Ricordo quando stavo camminando a Broadway, intorno alla 96ma strada, con Toshi Ichiyanagi, gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare questo, e poi ho guardato su verso un palazzo dove c’era una sala in cui stavano facendo esercizi di danza. Ho detto: “Questo sarebbe un buon posto” e Toshi rispose: “Sì, se potessimo averlo”. Così siamo entrati e abbiamo chiesto se era in affitto e risposero di no. Ma Minoru Niizuma (un famoso scultore giapponese) venne a sapere che stavo cercando un posto e mi chiamò e mi suggerì di prendere un loft. Disse: “Domenica prossima ti porterò a vedere alcuni loft a Downtown”. Così andammo e c’era un posto su Chambers Street che pensavo fosse molto bello. Ma il proprietario disse che Yukiko Katsura, un’altra famosa artista giapponese, stava guardando lo stesso loft, per cui se non lo avesse preso lei lo avrebbe dato a me. Quella notte per qualche ragione — è molto strano il modo in cui certe cose accadono — sono rotolata fuori dal letto e non riuscivo a smettere di pensare al fatto di prendere quel posto, non sapevo perché sentivo che era così importante per me. Ma, con il senno di poi, sì, è stato un cambiamento molto, molto importante per me.
HUO: Quindi si trattava veramente di un’urgenza.
YO: Sì, e alla fine l’ho preso! Il giorno dopo corsi lì con 50 dollari e mezzo che erano ciò che mi volevano far pagare come affitto mensile ed erano in contanti.
HUO: Si trattava di un nuovo inizio.
YO: Era l’inizio della vera avanguardia… che poi divenne Fluxus. Era anche l’inizio dei “loft concerts”. Si trattava di un’incredibile cosa nuova e fu di gran successo, tutti ne erano sorpresi. Tutti gli altri artisti cercarono di boicottare questa cosa — non l’impresa, che essi amavano, ma non volevano riconoscere il mio merito. “Una ragazza giapponese — ho sentito che è l’amante di un uomo cinese”. Non sapevo da dove venisse questa idea dell’uomo cinese. Non ero l’amante di nessuno. Non voglio indagare su chi sia stato a dire questo, ma era una situazione molto dolorosa.
JPJ: Come era essere una donna che lavorava nel mondo dell’arte a New York all’epoca?
YO: Era molto difficile. Mi sono imbattuta in molte situazioni “interessanti”. Anche ora c’è una situazione molto interessante, ma lo era soprattutto in passato. Nei primi anni Settanta ho fatto una mostra all’Everson Museum, a Syracuse. Ho ingaggiato un ragazzo come cameraman e lui ne fu molto, molto felice e mi ringraziò tantissimo per avergli dato il lavoro. E così decise di riprendere John e non me. Quando io e John parlammo alla stampa c’è un punto in cui io inizio a parlare e lui lo ha semplicemente tagliato. La camera si ferma lì. E quando John parla, lui riprende di nuovo. Perché ha fatto questa cosa? Ma è andato anche oltre. John aveva una grande chitarra in mostra, era uno dei contributi di John, quando c’erano circa 200 lavori miei. E il ragazzo zoomava da molte angolature solo la chitarra, il lavoro di John. Cosa stava succedendo? Questo era un caso estremo ma cose del genere ancora succedono, naturalmente. Eppure sono stata fortunata nei primi anni Sessanta perché la serie dei “Chambers Street Concert” funzionò molto bene. Nessun altro faceva “loft concerts”, erano i primi a New York. Ci fu una notte in cui c’era una nevicata molto forte e tu pensi “nessuno uscirebbe con una neve simile”, ma John Cage e David Tudor vennero con Peggy Guggenheim e la seconda o terza notte vennero con Peggy Guggenheim, Marcel Duchamp e Max Ernst.
JPJ: Devi essere stata molto soddisfatta.
YO: Avrei dovuto esserlo, ma era il modo in cui eravamo — pensavamo di essere i migliori, nella nostra testa. Era il mio compleanno e tutti erano lì, Robert Rauschenberg, Jasper Johns e Isamu Noguchi. Doveva essere il 1961 o 1962 e c’era un tavolo ed erano stati tutti invitati. Non so dove sia ora quel tavolo, non ero preoccupata di questo. La Monte Young era seduto nell’angolo e io andai lì e chiesi a La Monte cosa c’era che non andava — dato che lui sembrava terribilmente arrabbiato. E mi disse “Questi cretini non sanno chi sono”. Jasper e Bob? Ma io comprendevo questa sensazione, così dissi solo: “E io?”. La Monte era un gran macho e io ho lasciato perdere. Così i concerti diventarono immediatamente famosi. Questo è ciò che John Cage fece per me. E in seguito cominciai a vedere qualcosa come duecento persone a ogni concerto. George Maciunas venne a uno di questi. Probabilmente gli strinsi la mano. Alcuni amici mi dissero di sì. George era molto colpito da ciò che stava succedendo e volle fare la stessa cosa nel bel mezzo di Madison Avenue.
HUO: Maciunas fu fondamentale nel metterti in rapporto con l’architettura, mi hai detto una volta.
YO: Lui era un graphic designer e un architetto. La maggior parte degli architetti è legata ai modelli, ed è sempre un po’ forzato, non importa cosa faccia. Così ho creato un’architettura educativa, e l’ho dedicata a George. È Grapefruit. George capì immediatamente quello che stavo cercando di fare. Era veloce e intelligente, ma non l’ho apprezzato molto all’epoca come probabilmente avrei dovuto fare.
HUO: E l’opera AMAZE (1971) fu inizialmente realizzata con Maciunas. Puoi dirci qualcosa in più su questo lavoro?
YO: Maciunas costruì un sacco di cose per la mia mostra all’Everson Museum. In generale, se io dicevo che volevo fare qualcosa, lui diceva immediatamente “va bene, facciamolo”. Materializzava cose per me, ed era molto bravo, ma lo faceva a modo suo e io a volte dovevo dire che non volevo certe cose. C’era in particolare un’opera che io volevo che facesse, e infatti era proprio AMAZE, gli avevo dato un disegno preciso, e lui lo modificò leggermente. Non era come io lo volevo, e allora dissi solo “Hai fatto ancora questo”, ma lui aveva lavorato tutta la notte per realizzarlo, per cui non la prese molto bene. Infatti, provò a saltare da una macchina in corsa, tanto era deluso dal fatto che io non avessi apprezzato quel che lui aveva fatto. Ma credo di essere una di quelle persone che cercano di rendere le persone felici. Al centro di AMAZE c’era lo sciacquone del water, che io ho inserito lì perché volevo fare qualcosa che rendesse Maciunas felice. Anni prima, Maciunas voleva che io dessi un nome al movimento, ma io rifiutai perché pensavo fosse ridicolo creare un movimento che mettesse insieme così tanti artisti. Non si trattava di un gruppo di artisti che si mette insieme e decide di fare un manifesto. Era solo George. Così la mattina dopo venne con un pesante vocabolario e mi disse “Guarda questo, Fluxus”. Ci sono molte interpretazioni di questa parola nel dizionario, ma quella che mi indicava ridendo era “flushing” (sciacquone, N.d.T). In un certo senso ho sentito che avrei dovuto farlo felice mettendo una toilette al centro di AMAZE. A lui è piaciuto. Ma è qualcosa che probabilmente io non avrei fatto se non avessi voluto renderlo felice.
JPJ: Nella tua recente mostra alla Serpentine, c’era una piattaforma sulla quale vediamo AMAZE, e su questa piattaforma sembrava che ci fosse un corpo disteso. Qual è stata l’ispirazione per questo nuovo lavoro?
YO: Non era proprio una piattaforma. Il corpo era disteso sul pavimento e c’è una finestra accanto a esso. Quel pavimento è la realtà. Ogni cosa che accade sotto il pavimento sul quale si trova AMAZE, l’ho costruita in modo che ci fosse una dimensione più bassa del pavimento, in cui c’è il corpo morto. Volevo creare due dimensioni: una è quella di ciò che sta accadendo nel mondo — molte persone che muoiono, inutilmente — nell’altra siamo noi che ci divertiamo con AMAZE.
HUO: In mostra c’erano molti aspetti diversi del tuo lavoro — le istruzioni e le opere partecipative, i video e le tue architetture.
YO: Sì. C’era un’intervista che ho fatto che è stata pubblicata di recente nella quale si dice che io non sono stata un’artista multimediale, invece lo sono. Alle persone piace ancora fare affermazioni come questa.
HUO: E infatti tu sei sempre stata un’artista multimediale. Oggi è normale per i giovani artisti lavorare simultaneamente in ambiti differenti, come la musica e l’arte e il cinema e l’architettura, ma negli anni Sessanta era una cosa completamente nuova. Il tuo lavoro ha anticipato questa interdisciplinarietà — sei apparsa nel mondo dell’arte facendo delle mostre, così come nel mondo della musica, e hai sempre avuto rapporti con la musica attraverso i tuoi studi e la tua formazione musicale. Sei apparsa nel mondo del cinema, incluso un leggendario festival cinematografico a Knokke, in Belgio.
YO: Sì, ma sembra che tutto sia appena accaduto. E non ho evitato che queste cose divenissero parte della mia vita. C’era tutta una serie di possibilità interessanti che sono giunte a me. Molte, molte intersezioni. Se ci pensi ora, è un po’ spaventoso. Cosa sarebbe potuto succedere se avessi fatto questo o quello. In alcuni casi, la storia come la conosciamo ora sarebbe cambiata totalmente.
HUO: Prima parlavamo di tutti gli aspetti della mostra, ora dovremmo parlare del titolo. Hai infatti deciso di dare alla mostra questo bellissimo titolo, “To the Light”.
YO: “To the Light” riflette ciò che sto pensando: stiamo andando tutti verso la luce. È un’utopia, ma noi creiamo il futuro con i nostri desideri. La gente dice: “Hai realizzato Bed-In e c’è ancora violenza nella società”, ma c’è una luce che entra strisciando e tutti noi siamo parte di essa. Certi giorni, quando io e John facevamo qualcosa, certo, forse tre persone la capivano, o forse trecento, ma in un certo senso eravamo soli e sentivamo molto questa solitudine. Ma ora il 99% delle persone sta pensando alla luce, sta pensando di creare qualcosa per entrarci e penso sia bellissimo. In questa mostra, quando entri nell’ultima stanza, le impronte ci conducono verso la luce. Siamo tutti insieme.
HUO: Hai descritto la mostra come un qualcosa di libero, non cronologico, né chiuso entro certi limiti o confini. Ma una di queste cose che le unisce sono le istruzioni. Hai sperimentato le istruzioni agli esordi con Grapefruit (1964), una mostra sotto forma di libro. E ogni volta hai continuato a scrivere nuove istruzioni, incluso un nuovo gruppo per questa mostra.
YO: Ho mostrato per la prima volta istruzioni dipinte nel mio loft a Chambers Street nell’inverno del 1960, alla Madison Avenue Gallery di George Maciunas, la AG Gallery nel 1961, e poi nel 1962 ho esposto le istruzioni al Sogetsu Art Center di Tokyo. Nel 1964 ho raccolto queste istruzioni e altro in Grapefruit. Le istruzioni mi davano la libertà di fare tutte le cose che di solito non puoi fare nel mondo reale. Per esempio, mescolare tre dipinti nella tua testa: non puoi farlo con successo nella realtà. Con le istruzioni invece puoi fare un dipinto di quattro dimensioni, cinque dimensioni, addirittura sei dimensioni. Il punto è che puoi volare nella tua mente.
JPJ: In mostra alla Serpentine c’erano anche alcuni dei tuoi primi film. Quando hai usato per la prima volta una telecamera nel tuo lavoro e cosa ti ha portato a usare immagini in movimento come medium?
YO: Negli anni Trenta e Quaranta i miei genitori ci filmavano sempre con videocamere 8mm. Per questo ero intimamente legata alla videocamera fin da quando avevo circa quattro anni. Il filmmaker si è risvegliato in me quando Maciunas ha montato una videocamera ad alta velocità, e ha chiesto ad alcuni di noi di fare il film che volevamo. Mi chiese di pensare a quattro o cinque motivi diversi e lui li riprese per me, e credetti che avevamo fatto un buon lavoro. Il primo film, Bottoms, fu fatto in questo modo, da noi, nel mio appartamento. Era nel 1965 o 1966. Appena prima che andassi a Londra.
JPJ: L’attivismo è sempre stato presente nel tuo lavoro e continua a esserlo anche oggi. Cosa ti ha ispirato e ti ha dato la forza di assumerti la responsabilità di indirizzarla non solo alla tua cerchia ma anche al mondo intero?
YO: Sono nata in una famiglia molto votata al successo. Per cui, fin da quando ero in età pre-scolare, non ho mai pensato che avrei dovuto tenere le mie idee per me stessa.
HUO: Durante la guerra del Vietnam hai intrapreso il tuo movimento pacifista che continua ancora oggi con la tua campagna “War is Over”, senza dimenticare “ONOCHORD”. Puoi parlarci di queste campagne?
YO: Nel 1969, John e io intraprendemmo la mia campagna “War is Over” e io ho continuato a utilizzare questo lavoro in vari modi. Ma, cosa più importante, il lavoro è maturato in Imagine Peace e in Imagine Peace Tower in Islanda. Questa volta, grazie a Internet, i lavori potevano comunicare direttamente. Internet presenta un sacco di problemi, ma il suo potere comunicativo è più forte dei problemi associati a esso, quindi sopravviverà. Il mondo, ora, sta andando veramente verso la luce.
JPJ: La luce è così ottimistica e così simbolica: esci dall’inverno e dal buio ed entri nella luce. Trasmette un senso di propagazione e crescita.
YO: Molte persone dicono che sono ottimista, ma non lo sono. Sono una persona pragmatica e penso che, pragmaticamente parlando, ci stiamo dirigendo verso la luce.
JPJ: Ma pensando ai grandi temi della realtà che hai affrontato nel corso di tutta la tua vita, e alle tematiche che hanno a che fare con l’umanità come un insieme, è straordinario che tu abbia ancora questo incredibile ottimismo. La speranza per il futuro è che continui a fare passi in avanti. Anche #smilesfilm è un lavoro sull’ottimismo, sulla celebrazione e sul senso della collettività. Puoi parlarci di questo progetto, al quale hai lavorato per molti anni?
YO: Quando l’ho pensato per la prima volta, pensavo a tutte le persone nel mondo che sorridono assieme e ho scritto di questa cosa in Grapefruit. Quando John è morto, e io non riuscivo più a ridere, ho dovuto pensare veramente a come sorridere. Volevo essere una donna che riusciva a sorridere ancora per mio figlio, Sean.
JPJ: Quindi è più sulla positività: ovvero, tu sorridi per creare questo senso di connessione con altre persone e iniziare questa incredibile banca dei sentimenti positivi.
YO: Sì, ha molto a che fare con il fatto che mi portavano a giocare con una compagna che mia madre aveva scelto per farmi giocare. Mi dicevano di giocare solo con quella compagna, e quando non c’era, mi sentivo sola. I rapporti con il mondo erano totalmente perduti e io istintivamente mi mettevo in comunicazione. Ma allo stesso tempo, credevo nella positività e sentivo che era la conclusione logica: stiamo insieme come individui. Sono sicura che sentiremo questa cosa molto forte quando finalmente incontreremo persone da Marte, per esempio. Noi siamo persone della terra.
JPJ: Questa idea che c’è un legame tra tutti noi è qualcosa che associo al tuo lavoro. Un sorriso è un’espressione di celebrazione apparente e piacere e legame con gli altri. E naturalmente, è molto diverso da qualcosa come gli scherzi o lo humour, che hai detto ispirano il tuo lavoro. Un gioco è una cosa molto diversa da un sorriso.
YO: Questo è vero. Gli scherzi sono un gioco mentale e un sorriso è un gioco che fai con il corpo. Ed è molto importante che il tuo corpo abbia la possibilità di sorridere.