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350 AUTUNNO 2020, PROSPETTIVE

27 Novembre 2020, 9:00 am CET

Yona Friedman®: Un caso studio dal radicalismo all’idiocrazia di François Roche

di François Roche 27 Novembre 2020

A quasi un anno dalla morte di Yona Friedman (1923–2020), proponiamo la pubblicazione dell’estratto di un testo di François Roche a lui dedicato, sull’eredità dell’architettura radicale, i suoi usi e i suoi abusi. Il testo fu commissionato nel 2013 dalla Direction de l’Architecture et du Patrimoine del Ministero della cultura francese che, alla fine, rifiutò di pubblicarlo, censurandolo.

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“Cartoline Postali”. Veduta della mostra presso Galleria Massimo Minini, Brescia, 2009-2010. Fotografia di Andrea Gilberti. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.
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Maquette d’étude pour La Ville Spatiale, 2016. Materiali vari. Dimensioni variabili. Fotografia di Alessandro Zambianchi. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.
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“Cartoline Postali”. Veduta della mostra presso Galleria Massimo Minini, Brescia, 2009-2010. Fotografia di Andrea Gilberti. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.

Sulla divergenza
Multifunzionale come un coltellino svizzero, ripiegato su e giù in infinite modalità tra arte e architettura, è allo stesso tempo un alibi, un fioretto, un padre spirituale, un ideologo sconfitto le cui cicatrici sono un’espiazione (la sordità, reale o fittizia che sia – su questo torneremo più avanti), e piuttosto a portata di mano… un paper architect, un ideologo, quel genere di brand che non passa mai di moda, ancora legittimato dall’establishment francese, quel buffo vecchio bacucco Yona Friedman® con quel leggero accento slavo che ti fa sorridere, di cui tutti perdonano le bizzarrie perché sono così affascinanti e “inoffensive”.

Yona Friedman® è facilmente adattabile… dai palloni gonfiabili che fanno eco a la Ville Spatiale1, agli scatoloni galleggianti presentati con fraseologia utopico-politica da salotto, patetica e patologica… si vedono ovunque: elicotteri GPS per una città robotica militare2… tutto in Yona Friedman® torna utile per qualcosa, purché quelli che lo strumentalizzano non abbiano alcun legame con l’anarco-scientismo che sottende il suo pensiero e la sua produzione.

Non passa un mese senza che qualche curatore alla ricerca della propria raison d’être ideologica, o qualche architetto alla ricerca di un’installazione pseudo-politica, non si impadronisca della Ville Spatiale per i propri fini, copiando un paio di citazioni, per indolente autocelebrazione, da un’opera che non riesce a capire e la cui intensità provocatoria è fuori dalla sua portata… Abbiamo visto, anche, come il suo lavoro sia stato utilizzato nelle fiere d’arte internazionali, come un contrappunto, un antidoto economico per narrazioni facilmente monetizzabili destinate al mercato delle materie prime… Esporre Yona Friedman® è un atto politico/estetico citazionale, un modo per ornare se stessi di un vestitino utopistico, un antidoto cool che dà il vantaggio e il privilegio di non mettere mai in discussione le condizioni del suo utilizzo… In queste citazioncine, la Ville Spatiale non diventa altro che un assemblaggio di impalcature sponsorizzate dal produttore, con qualche vaso da fiori posizionato qua e là in modo maldestro per darle un aspetto apparentemente “improvvisato”. La Cloud alla Serpentine3, la versione del 2013, non fa eccezione alla regola. L’originale non era un capriccio da giardino4 ma un frammento di qualcosa di più grande, la prova numero uno nella prospettiva della Ville Spatiale dove tutte le avventure umane sarebbero state tollerate e perfino suggerite… Qui invece lo scopo era quello di appiccicare l’etichetta Friedman® su un progetto asetticamente elegante per nascondere le intenzioni dell’artista.

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Maquette d’étude pour Shenzhen, 2017. Materiali vari. Dimensioni variabili. Fotografia di Alessandro Zambianchi. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.
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Maquette d’étude pour La Montagne de Venise, 2016. Materiali vari. Dimensioni variabili. Fotografia di Alessandro Zambianchi. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean-Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.
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“Sculpting the Void. Une proposition
de Yona Friedman avec le Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman”. Veduta della mostra presso Galleria Massimo Minini, Brescia, 2020. Fotografia di Massimo Minini. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean-Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.

Friedman è forse diventato, senza che ne abbia alcuna colpa, un’icona per i falsificatori, per gli architetti che puzzano di un’estetica politica pigra e a buon mercato? Forse la sua immagine potrebbe essere usata per adornare delle saponette speciali da vendere nei centri d’arte per raccogliere i fondi per i più indigenti? Potrebbero essere usate per lavarsene le mani, come parte di un’amnesia collettiva, per prendere dal suo lavoro solo le velleità geometriche e le strategie scientifiche e tecnologiche alla base dei suoi preamboli, scartando l’umano, il fetore, la sporcizia e la commedia, per prendere in prestito una frase di Artaud5, e vedere gli esseri umani solo come opzioni decorative su scaffali di cartone ribaltati in attesa dei visitatori, nel tentativo di evocare un retrogusto di improvvisazione, un palliativo utopico!

Di cosa si tratta in realtà? Un’iniziativa culturale e museologica lanciata quindici anni fa la cui missione era quella di riscrivere la storia, in particolare quella della radicalità degli anni eroici del dopoguerra – caratterizzata da architetti come Ionel Schein e Yona Friedman – prima che la crisi petrolifera e la reazione postmoderna non mettessero fine a quel capitolo. Il loro compito era allettante, e il lavoro storico più necessario che mai per combattere la cecità ostinata delle strutture di pensiero e di potere che negli anni ‘90 li aveva continuamente ignorati. Quel lavoro è stato ben fatto, tranne che per una cosa, e non è una cosa da poco: l’architettura e gli architetti sono stati spogliati di tutta la loro combattività e frizione nei confronti della società, contro di essa e come parte di essa, per conservarne solo la dimensione culturale e strumentale (vedi la mostra “Architectures Non Standard”6 al Centre Pompidou, Parigi, 2003). Il loro lavoro è stato ripulito da tutti gli elementi patogeni, dalle fonti del disordine, dall’incompiutezza e dall’imprevedibilità politica e sociale7 che sono stati la ragione stessa della loro esistenza. NO, la Endless House di Frederick John Kiesler non è un modellino in scala, un “cadavere squisito” in una collezione chiamata “cultura”, ma un tentativo di dissoluzione delle aspettative che ancora condizionano l’architettura, di risistemarne le premesse e le convenzioni in modo da rimappare il suo rapporto con il mondo. Fare politicamente architettura politica, per riformulare Godard, significa adoperare strategie estetiche diametralmente opposte ai modelli Beaux Arts di pensiero e trasmissione, per esempio, di oggetti senza soggetti.

L’archiviazione della conoscenza è avvenuta, ma che dire della resurrezione dell’architettura sperimentale, che invece di confrontarsi con il mondo di oggi, è diventata solo uno spettacolo, una “versione lite” per burattini planetari. Lo scopo della riscrittura soggettivata del periodo monarchico di Michelet era quello di servire la Repubblica. La “culturizzazione” della radicalità architettonica ha avuto un effetto perverso – quella radicalità è tenuta prigioniera nel museo. Pertanto l’architettura è ridotta a oggetto grazioso – indolore, inodore e inoffensivo – trascinando la sua legittimità dagli esperimenti degli anni Sessanta, non per interrogarne il significato per l’oggi e la loro non-sincronicità con il nostro tempo, o la loro ingenuità e tossicità, ma per usarli come giustificazioni storiche e culturali, come uno scudo per proteggere la propria autonomia. Un po’ di simil-Friedman® può fare strada! Lui stesso è diventato sordo al mondo, letteralmente, battendo la testa un’ultima volta, come un ragazzo birichino, per proteggersi dall’appropriazione abusiva… Un dialogo tra sordi.

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“Cartoline Postali”. Veduta della mostra presso Galleria Massimo Minini, Brescia, 2009-2010. Fotografia di Andrea Gilberti. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.
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“Cartoline Postali”. Veduta della mostra presso Galleria Massimo Minini, Brescia, 2009-2010. Fotografia di Andrea Gilberti. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.
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“Cartoline Postali”. Veduta della mostra presso Galleria Massimo Minini, Brescia, 2009-2010. Fotografia di Andrea Gilberti. Courtesy Yona Friedman; Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman; Jean- Baptiste Decavèle; e Galleria Massimo Minini, Brescia.

Science + Fiction
Ma torniamo alla questione del brand e vediamo cosa comporta. Sotto i nostri occhi / Un interlacciamento geometrico che galleggia sulla città, precursore del castello nel cielo di Miyazaki, ma senza l’organicità… una moltiplicazione geometrica, una sorta di scacchiera, una griglia con schemi rigidi e confini incerti, un’integrazione assuefacente e ripetitiva di quadrature di cerchi, che dimostra deliberatamente una padronanza assoluta della logica dimensionale e strutturale e della modalità di assemblaggio, utilizzando le successioni della matematica combinatoria, incrementale e ricorsiva, in un sistema scientifico in cui l’architetto utilizza la geometria descrittiva8 come un deus ex machina per controllare e dominare il suo soggetto.

Questo interlacciamento geometrico – una sovrastruttura razionale e ben ordinata – è in stand-by, o, più precisamente, sospeso… in entrambi i significati della parola. Letteralmente, nel senso che pende sopra la città di cui occupa gli interstizi aerei, ma anche nel senso che pende nell’attesa di un’ipotetica colonizzazione umana, che, al contrario, è dedicata al libero arbitrio di ognuno e di tutti, alla negoziazione congiunta di individui e gruppi che determinerà le modalità di abitazione e di interrelazione secondo i loro impulsi e stati d’animo, o in altre parole, al disordine delle attività umane e all’incompiutezza dei desideri delle moltitudini.

Ed è proprio lì che la schizofrenia dell’etichetta Yona Friedman® fa la sua magia. Proprio lì e su due livelli: un’esposizione scientifica preliminare che fissa una realtà costruttiva nell’ordine del realizzabile, del plausibile, del pretendibile, seguita da una narrazione della sua “colonializzazione” sotto forma di fantapolitica sull’abitabilità partecipativa e collettiva… senza che mai quell’energia umana, quel vitalismo animale9, venga elaborata su un campo diverso da quello dell’ideologia (non oso usare la parola teoria, tanto questa parola resta un mistero o addirittura una bufala).

Qui possiamo vedere alcune conseguenze:

1. Il controllo delle strutture e delle combinazioni di poliedri, tetraedri e di estensioni di politopi (triedro, 1955) alla base della geometria da colonizzare, si esprime su una modalità di scambio “strutturalista” in cui ogni elemento (struttura/colonizzazione) è definibile solo dalle relazioni di equivalenza o di opposizione che mantiene con l’Altro e gli altri. Questo insieme di relazioni è ciò che costituisce la “struttura metabolica”.
Il rapporto tra l’enunciazione matematica e l’anarchia delle modalità di colonizzazione genera un sistema di opposizione che non comporta né sviluppo né correlazione, né organizzazione nel senso di un co-funzionamento. Non è un protocollo simbiotico simbolico, né c’è affinità reciproca tra gli elementi. Le cronologie gerarchizzate delle permutazioni sistemico-sistematiche non derivano dai principi di contagio e di epidemia10 che fagociterebbero e dissolverebbero le geometrie precedentemente stabilite. Il contatto e lo sviluppo degli interlacciamenti disordinati della moltitudine umana, fin troppo disordinata, non metabolizza la causalità scientifica. La “geometria solida” di Platone mantiene la sua impronta.
Al contrario, le ipotesi di Constant, sviluppate per la sua New Babylon a partire dal 1953, cercavano di affrontare la bruttezza dell’incompiutezza umana, dell’indeterminismo umano, e privilegiare le incoerenze estetiche nate dalla moltitudine, la generazione-degenerazione cannibalistica, come la Comune di Parigi di Rimbaud, come musica sciamante che fruscia, ronza e brulica…

2. L’attuale abuso dell’etichetta Friedman deriva proprio da questo modus operandi schizoide, o dall’ambivalenza della coppia Science + Fiction (da non confondere con la Science Fiction), come la produzione di forme di conoscenza antinomica e autonoma.
Per ottenere l’etichetta Yona Friedman®, tutto ciò che occorre sono alcune geometrie ripetitive (computazione) e un link di riferimento al suo Guru-genitore. In questo modo si diventa membri di quella setta che è stata chiamata architettura radicale.

Ma che dire allora della dimensione umana, della “parte maledetta”11 così ardentemente desiderata dal brand ma mai realmente ricercata, così presente nei prologhi ma così assente nei procedimenti e nell’estetica generativa? Le relazioni umane sono così difficili da prendere in considerazione, che devono essere ideologizzate, idealizzate, evitando ed escludendo con cura la loro eccessiva natura, le combinazioni di incomprensione, conflitto e rassegnazione che producono significato e pensiero al prezzo della defezione di questi ultimi? Come disse Lacan: «Penso dove non sono, dunque sono dove non penso». Possiamo riattivare queste sostanze ambigue che sono all’origine delle modalità relazionali, affinché la scienza non sia solo un pretesto operativo ma un oggetto da emarginare, cannibalizzare, scomporre, per metabolizzarne i principi positivisti e l’arroganza politica?

PS
Abbiamo intervistato (1993) e tenuto una conferenza con Yona (2009)… Profondo rispetto per il suo lavoro e pace all’anima sua.

(Traduzione dall’Inglese di Augusto Fabio Cerqua)

François Roche è un architetto, fondatore dell’organizzazione di architettura polimorfa New-Territories.

1 Per esempio, i tributi alla Ville Spatiale tipo le installazioni di EXYZT, Philippe Rizzotti, Tomás Saraceno … giusto per citarne alcuni.

2 Qui l’obiezione non è tanto al concetto e al progetto bensì all’analogia dei curatori con il “brand”.

3 Cloud, The Serpentine Gallery, Londra, 2013.

4 Un capriccio da giardino (dal francese folie o fabrique de jardin) è un edificio ornamentale situato nei parchi e nei terreni circostanti a grandi ville e castelli (Wikipedia).

5 Pour en finir avec le jugement
de dieu
(Per farla finita con il giudizio di dio, 1947), trasmissione radiofonica registrata da Antonin Artaud.

6 La strategia del “lavaggio
del cervello” intrapresa da Frédéric Migayrou in Francia,
che ha aperto le porte ai nuovi Alphonse Bertillon (antropometria criminale) e Auguste Comte (positivismo), confondendo
la Scienza con gli Abusi della Scienza, la strumentazione
con l’ideologia, il parametrico con il computazionale, ha reso possibile l’emergere di uno stupido artefatto come Patrik Schumacher e tanti altri epigoni.

7 Olzweg, lo scenario co-vincitore scritto da New-Territories
per l’ampliamento del FRAC Centre, basato sui principi robotici dell’incertezza e dell’incompiutezza, ben diverso dalle “Turbolenze” pietrificate compiute dopo un incredibile secondo round, una sorta di scherzetto amministrativo. [Le Turbolenze fanno riferimento al progetto co-vincitore, poi realizzato, denominato appunto Les Turbulences, dello studio Jakob + Macfarlane Architects. N.d.T.]

8 La geometria descrittiva è la risoluzione grafica dei problemi relativi all’intersezione di volumi e superfici geometricamente definite in uno spazio di 2-3-n dimensioni. Sviluppato dal matematico Monge nel XVIII secolo.

9 Durante gli anni Settanta Friedman lavorò al MIT per costruire un computer in
grado di organizzare in modo democratico la Ville Spatiale.
Il programma chiedeva agli individui quali fossero le loro preferenze spaziali. Poi, una volta analizzati e programmati, questi dati venivano processati non solo sulla base dei desideri dei loro vicini di casa, ma anche sulla luce, sull’accesso alla ventilazione, ecc. Alla fine abbandonò questo progetto perché riteneva che
il suo computer non riusciva a comprendere i colpi di scena e la complessità del processo decisionale umano.

10 Gilles Deleuze, Claire Parnet, Dialogues, Flammarion, Parigi, 1999, p. 69.

11 Cfr. Bataille.

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