Giancarlo Politi: Dopo tanti anni che ci conosciamo ancora mi chiedo chi è Maurizio Cattelan.
Maurizio Cattelan: Ne so quanto te!
GP: Intervistarti comunque è sempre difficile…
MC: E allora non farlo (ride).
GP: Dopo aver letto la “tua” straordinaria autobiografia di Francesco Bonami (complimenti a te per gli input e a lui per la fantastica ironia) mi sembra di conoscerti un po’ meglio. Anzi, forse meno di prima. E allora ti chiedo ancora: come nasce un tuo progetto?
MC: Il lavoro si attiva quando squilla il telefono, quando qualcuno ti chiama e ti sollecita.
GP: Quindi immagini il tuo lavoro sempre per un posto specifico?
MC: No, sono per lo più dei lavori che tengono in considerazione dove vengono presentati. Credo che sia diverso, non sono fatti solo per quel posto specifico. E poi dovranno vivere ovunque.
GP: Ma quando squilla il telefono qual è l’obiettivo che ti proponi di raggiungere?
MC: Qualche volta di ottenere più soldi possibile. Ma per il lavoro, nessun obiettivo in particolare. Il mio lavoro non vuole arrivare da nessuna parte… si muove in tutte le direzioni ma anche in nessuna. A me piace conservare una complessità di fondo che talvolta nemmeno io stesso capisco.
GP: Non sembrerebbe proprio senza obbiettivi visti i risultati. Credi che il tuo lavoro possa creare equivoci o malintesi?
MC: Con il mio lavoro desidero offrire tanti punti di vista differenti, i più contradditori possibili. L’arte deve essere anche una causa di malinteso, perché la gente può farne qualsiasi cosa desideri. Per me l’equivoco o l’inganno ottico e mentale rappresentano il vero motore dell’arte.
GP: È comunque vero che le tue opere sono riuscite ad abbattere il confine tra ciò che è etico e ciò che non lo è, tra legale e illegale, tra bene e male!
MC: Il significato del lavoro consiste semplicemente nel modo in cui la gente lo guarda e ha intenzione di usarlo. Ciò che faccio è forse difficile da interpretare. Spesso anche per me. Non si presenta con un unico messaggio o un’unica spiegazione. Più contraddizioni contiene meglio è.
GP: Parlami di questo nuovo progetto.
MC: In realtà ho iniziato a lavorarci questo inverno negli Stati Uniti ed è destinato a una grande mostra collettiva all’aperto che si terrà in agosto presso il Death Valley National Park in California, uno dei più grandi parchi nazionali statunitensi.
GP: Ma i soggetti di queste sculture sono animali reali oppure c’è il trucco?
MC: Nessun trucco. Si tratta di conigli transgenici nei quali è stato inserito un gene dei ratti e destinati alla ricerca. Io ne utilizzerò circa centosessanta esemplari che disseminerò lungo tutto il percorso della mostra.
GP: Quindi se ho ben capito si tratta dei tuoi soliti animali imbalsamati.
MC: Non ho mai approvato gli esperimenti sugli animali. Però esistono, sono una realtà. Io guardo il mondo che mi circonda e con esso alimento la mia creatività. Me ne servo e lo uso. Non mi tiro fuori.
GP: Ma quest’opera non ti ha posto di fronte a qualche problema etico?
MC: Forse. Comunque non ho mai fatto niente di più provocatorio o cinico o spietato di ciò che vedo tutti i giorni intorno a me. Io sono solo una spugna, un sensore del mondo.
GP: Non ti sembra di fare un’operazione a rischio dopo le polemiche per i tuoi piccioni alla Biennale?
MC: Le polemiche fanno parte del gioco e dell’opera!
GP: A proposito, gira voce che vuoi andare in pensione…
MC: Ma io come artista lo sono già. Questi progetti vengono da lontano. Ora sono direttore e editore di una rivista d’arte (Toilet Paper). E mi diverto ancora.