È il 1989 quando il diciannovenne Andrea Berton varca la soglia del ristorante del maestro Gualtiero Marchesi, in via Bonvesin de la Riva a Milano. È appena sceso da un treno partito da Udine e ha solo un borsone con sé. Non ha un curriculum. Non è atteso per un colloquio. Ma immagino che se ti muovi alla volta del miglior ristorante d’Italia per accorciare le distanze tra te e il grande chef che vuoi diventare, curricula e appuntamenti siano solo dettagli di poca importanza. Immagino anche che Marchesi avrà notato in questo ragazzo la stessa cosa che a primo impatto noterebbe chiunque. La prima che ho notato anch’io, intervistandolo a meno di una settimana dalla presentazione della Guida Michelin 2015 e dagli onori che l’hanno visto protagonista. E cioè che Berton ha un grande carisma, ed è un uomo che trasuda determinazione. Quella sera stessa inizia il suo percorso da Marchesi, dove resta quattro anni condividendo i coltelli con Carlo Cracco, Davide Oldani, Enrico Crippa — tutti chef che, come lui, oggi stanno facendo la differenza nell’evoluzione della cucina italiana. Dopo una breve parentesi a Londra, nel 1992 Andrea arriva all’Enoteca Pinchiorri. In seguito, la svolta. Approda a Montecarlo, nel ristorante di Alain Ducasse, meta ambitissima dai giovani professionisti del tempo. In tanti glielo sconsigliano, gli dicono “vedrai, che non ti troverai bene”.
E invece quella mentalità francese fatta di ordine, rigore e disciplina — parliamo di anni in cui questo modello non era ancora arrivato in Italia — crea le condizioni ottimali per una crescita definitiva e ben strutturata. Perché nel caso di Berton si è trattato di un istinto — quello dell’organizzazione della complessità — che è servito a plasmare meglio un’attrazione — quella per la cucina — caratterizzata alla base da una serie di elementi antitetici. Mi spiego meglio: il primo amore, da bambino, a cena fuori con i genitori, è nato osservando l’entropia tra i cuochi in movimento. Degli chef lo affascinavano le divise macchiate, quegli schizzi colorati che non riusciva a spiegarsi. Osserviamo invece il suo ristorante: rispecchia ordine ed equilibrio in ogni dettaglio, in ogni colore o materiale impiegato. E mi viene da pensare che in principio fu il caos a catturare la sua attenzione, ma poi fu l’ordine a fagocitare ogni sua esperienza. A permettergli di imparare l’unica modalità di lavoro capace di restituire al cliente il senso ultimo del mestiere — ovvero il grande rispetto con cui si onora la sua presenza, con cui si nutre il suo senso estetico. “Rispettando le materie prime, gli strumenti che utilizziamo, le nostre postazioni, il lavoro di chi è con noi in cucina; rispettando perfettamente tempi e procedimenti, quello che in realtà facciamo è rispettare il destinatario finale del nostro lavoro. È solo così che si raggiungono risultati concreti. Non c’è altro modo” — mi dice, guardandomi dritto negli occhi. E ripenso alle mie cene da Pisacco — assieme a Dry, progetto fortunatissimo che ha reso accessibile il lusso dell’alta cucina — e anche al bel pranzo dopo quest’intervista. A come abbiano dato valore alla mia passione, al mio amore per la buona tavola, a quanto ancora saranno capaci di farlo. Quella ricevuta il quattro novembre di quest’anno, è la prima stella “ufficiale” di Andrea Berton, del ristorante che finalmente porta il suo nome. Ma è cosa buona e giusta precisare che Michelin, in concomitanza del suo passaggio, ha premiato la maggior parte delle cucine in cui si è fermato. E non è difficile immaginare che continuerà a farlo.
Ristorante Berton –
Viale della Liberazione 13, 20124 Milano
Foto: Repertorio Ristorante Berton