Andrea Bowers kaufmann repetto / Milano

9 Maggio 2018

È costellata di parole la mostra di Andrea Bowers da kaufmann repetto a Milano. Parole urlate, parole scritte, parole che si fanno slogan, dissenso, contestazione. Parole proibite e censurate. Parole intime, personali. Parole politiche. Perché il personale, ancora una volta, è politico.
E non è casuale l’insistenza sul potere della parola da parte di Bowers proprio in una congiuntura storica in cui la libertà d’espressione e di stampa, per quanto sancita dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, sembra essere minata.
I primi due giorni di presidenza di Donald Trump, al centro del video Disrupting & Resisting, J20 & J21 (2018), sono raccontanti dall’artista americana attraverso volti e voci di due distinti gruppi di attivisti, #DisruptJ20 e Women’s March, impegnati in marce e azioni di protesta non violenta. L’occhio della Bowers non è neutrale. La sua attitudine documentaristica, la registrazione dei fatti, vuole essere un memento e uno sprone a stabilire nuove forme di collaborazione e coalizione a tutela dei diritti umani, contro qualsivoglia manifestazione di misoginia, omofobia, razzismo, oppressione e prevaricazione. Al contempo, con l’installazione di neon Forbidden Words Illuminated (2018), Bowers denuncia determinati casi di censura contemporanea: da una massa indistinta di lettere di volta in volta emergono, per poi riconfondersi in esse, sette parole vietate dall’amministrazione Trump nei documenti ufficiali del Center for Disease Control, la principale agenzia di salute pubblica degli Stati Uniti. L’attivismo della Bowers si concentra poi su istanze e urgenze femministe, dai quattro disegni a pennarello su cartone ­– risultato di un processo di appropriazione e ricontestualizzazione di immagini e grafiche storiche di natura politica – all’installazione di neon e cartone dall’emblematico titolo Fight like a Girl (2018), slogan ripreso dalla Women’s March, come quelli riportati sui ventagli della serie Feminist Fans, sempre del 2018. Una teoria di apparentemente leziosi accessori, carichi invece di impegno, rabbia e orgoglio. E dal politico si torna, così, al personale.

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