“Gli anni Novanta sono stati il decennio di Barcellona e i Duemila quello di Berlino; questo, l’attuale, è il decennio di Milano.” Con queste parole Dario Franceschini, Ministro dei beni e delle attività culturali, termina il suo breve intervento a coronare la presentazione della nuova sede della Fondazione Prada. Se pronunciata in un differente contesto, quell’asserzione avrebbe innegabilmente risuonato come sciovinista e tronfia… Ma qui, nel Cinema — una delle tre nuove costruzioni che, affiancate a sette edifici esistenti, articolano il complesso della Fondazione, un’antica distilleria convertita su progetto dello studio OMA — le parole del Ministro trascendono il pourparler dei politici a sancire uno stato di fatto: Milano può oggi vantare un centro di produzione per le “arti” che, in virtù della qualità della sua proposta, contribuirà a riaffermarne la centralità nel panorama culturale globale.
Situata nella zona Sud della città, in Largo Isarco, sul confine dello scalo ferroviario di Porta Romana, oggi una vera e propria “waste land”, la nuova sede della Fondazione offre un’ulteriore esempio di reinterpretazione degli innumerevoli ex complessi industriali che costellano la prima periferia milanese. Ma, a differenza di luoghi che condividono una vicenda analoga, dal Campus Bovisa del Politecnico di Milano agli stabilimenti Pirelli alla Bicocca, la “fabbrica” è qui tradotta come contesto sociale che non rincorre un programma produttivista, quanto un’idea di collettività: questi spazi comunicano un’efficienza sincera, approcciano la museografia con varietà ma senza pretestuosa sperimentazione, sono permeabili e comunicativi, e soprattuto vantano una peculiare identità milanese — ricordano la ieraticità di certi scenari testoriani — in ciò rivelandosi come spazi della città e per la città. Lo stesso programma della nuova sede della Fondazione tradisce una volontà a ridefinire il ruolo dell’azione privata nel corpo sociale pubblico, al di là delle dinamiche proprie del mecenatismo, della filantropia, del partenariato.
A circa vent’anni di distanza dall’installazione dell’opera permanente di Dan Flavin in Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, un intervento che suggeriva un’altra “maniera” di esperire il sentimento religioso sì intimamente ma soprattutto nella comunità, le mostre con le quali la Fondazione ha scelto di inaugurare la nuova sede sembrano voler coniugare la spettacolarità con un’esperienza dell’arte in termini di valore, condiviso e condivisibile. La Collezione Prada, costruita con sapienza scientifica, come pure con ironia e spudoratezza, resa pubblica per la prima volta nella mostra dedicatale a Ca’ Corner della Regina nel 2011, è qui esposta in tre iterazioni — “An Introduction”, “In Part” e “Trittico” — che offrono una visione dinamica della dialettica tra l’afflato eclettico che naturalmente contraddistingue il collezionismo privato e le necessità dell’istituzione museale di raccontare storie, esplorare temi, offrire interpretazioni. In “Trittico”, per esempio, l’opera 1 metro cubo di terra (1967) di Pino Pascali è esposta con un’opera di Eva Hesse (Case II, 1968) e un’altra di Damien Hirst (Lost Love, 2000) sulla base della comune forma cubica; il dialogo tra le tre tuttavia stimola letture inedite nella tradizione minimalista, quasi a intravederne una vocazione escatologica… La Collezione diventa così per la Fondazione uno strumento esplorativo e al tempo stesso di diffusione di molteplici discorsi artistici — al pari dei percorsi didattici, delle rassegne cinematografiche, della stessa presenza di un luogo esplicitamente ed esclusivamente ricreativo, come il Bar Luce, progettato da Wes Anderson ispirandosi alle atmosfere della Milano del cinema neorealista. Tra le mostre inaugurali, è forse “Serial Classic” (e la sua gemella, “Portable Classic”, nella sede di Venezia) a tradurre più eloquentemente l’etica programmatica della Fondazione. Curata dall’archeologo Salvatore Settis, la mostra celebra la natura “corale” dell’arte greca e la figura dello scultore classico quale vettore dei valori della polis sopra ogni espressione d’individualismo creativo. Che la mostra sottenda una visione democratica dell’arte è del resto reso esplicito dalle dinamiche di produzione seriale, replica e imitazione nell’arte classica, che costituiscono il vero fulcro del discorso di Settis — e in un certo senso echeggiano il presupposto di un’altra esposizione della Fondazione, “The Small Utopia. Ars multiplicata”, ospitata nel 2012 a Ca’ Corner, ovvero il progetto della disseminazione democratica dell’arte tramite l’invenzione del multiplo. Copie romane del Discobolo di Mirone, o del Doriforo di Policleto sono così esposte una accanto all’altra, stimolando nello spettatore un’esperienza visiva ai limiti della realtà virtuale; nel contempo, quelle stesse copie suggeriscono tanto una drammatica assenza dell’originale, quando che l’esperienza dell’arte ha storicamente avuto una finalità pedagogica e divulgativa, fondata sulla diffusione dell’opera a favore della sua fruizione da parte del più ampio numero di spettatori — un finalità che sembra essere focale nella missione di questa Fondazione.