Damir Očko Galleria Tiziana Di Caro / Napoli

23 Novembre 2016

In Year Out of Shape di Damir Očko, la terza mostra dell’artista croato nella galleria Tiziana Di Caro, il tempo si fa materia, a cominciare dal titolo. Una materia dai confini incerti, “fuori forma” e fuori equilibrio: malleabile, estendibile, accorciabile come una fisarmonica che si ripiega su se stessa per poi occupare di nuovo il suo ingombro nello spazio. Una materia reale, un tempo i cui segni restano ben visibili grazie alle stesse tecniche adottate dall’artista, iniziando dal collage che, come scrive Očko in una lettera a Bice Curiger “dona la possibilità di una durata estesa”. Il grande décollage 2014-2015 (2016) che accoglie all’ingresso restituisce un’immagine unica dove la vita privata, quella lavorativa e gli accadimenti nel mondo si frammentano, i dettagli si squarciano, le memorie si stratificano. Al centro della mostra un calendario circolare trova supporto su una struttura poligonale accessibile che invita all’immersione. Dieci immagini per dodici mesi (includendo i punti di ingresso e di uscita), collage caratterizzati da macchie cromatiche dal sapore organico e dalla forma sfuggente che si innestano su ambientazioni da set cinematografico e still da film. Una accanto all’altra, in una spirale avvolgente, segnano una scansione temporale fittizia, costruiscono una narrazione che è un pretesto, in bilico tra l’oggettività dell’immagine fotografica e l’arbitrarietà del segno. In questa oscillazione tra realtà e fiction, è il backstage a farsi punto di osservazione privilegiato, luogo dal quale scrutare entrambe. Infine The Third Degree, film presentato alla Biennale di Venezia del 2015, quando Očko ha rappresentato la Croazia. Qui i segni del tempo diventano marchi, la memoria della sofferenza una linea di paesaggio impressa sul corpo, dove cicatrici e ustioni rappresentano ancora una volta una stratificazione possibile. La crudele bellezza di queste forme scatena la tensione tra poetico e politico, al centro delle riflessioni dell’artista che trasforma il corpo in una pagina su cui trascrivere turbamenti personali e sociali. Il gioco di specchi rivela il movimento di camera mostrandoci – ancora una volta – il backstage, disegnando e rompendo al tempo stesso il confine tra il dato reale e la sua resa estetica, in una metanarrazione che si scioglie nella potenza dell’immagine.

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