Dalla storica Piazza di Montevecchio nel cuore di Roma all’austerità di Via Barozzi. Perché? Pensi che la tua galleria riesca a inserirsi “naturalmente” nel contesto milanese?
La spinta di aprire a Milano deriva principalmente dall’ingresso in società di Chiara Zoppelli, che mi affiancherà nella direzione della galleria. Inoltre con Milano ho un bel legame, ho lavorato qui tanti anni e il mio pubblico abita principalmente il Nord Italia. Credo fortemente nella priorità del lavoro sul territorio nazionale e nella galleria come luogo privilegiato dove entrare nel lavoro degli artisti. Il benvenuto è stato molto bello. Mi inserisco in un contesto particolarmente vivace e attivo: le riviste sono tutte qua – Flash Art, Mousse, Kaleidoscope – così come tanti curatori e protagonisti del contemporaneo internazionale. Con sette anni di galleria alle spalle oggi ho più coscienza del mio lavoro e della linea della galleria. Quello che vorrei offrire è un linguaggio alternativo rispetto al panorama milanese attuale.
Si nota una certa diversità nella scelta dello spazio, un palazzo signorile, un’atmosfera decisamente diversa. È voluto, oppure è il frutto di una coincidenza?
È voluto. Quello che da subito mi era chiaro era l’idea di uno spazio che, come quello di Roma, avesse molto del carattere della città. Roma è facile, in tutto il centro storico gli spazi sono fortemente connotati, per questo ne ho scelto uno che in piccolo riportasse i disegni di Roma: la mia galleria, con pianta barocca e cardo centrale, sintetizza i segni del ‘400 e del ‘500. Milano è difficile, hai a che fare con il tanto amato Novecento, quindi con due possibilità: da un lato privilegiare un’architettura industriale che in misura piccola rischia di diventare anonima, oppure scegliere la Milano coeva, di chi l’ha fatta. Ho optato per la tradizione milanese della galleria nell’appartamento, quella iniziata dai vecchi corniciai. Volevo stabilire fisicamente e visivamente una connotazione territoriale. Questo spazio ha vinto, per la sua strategicità e la sua vicinanza a Villa Necchi Campiglio, una delle architetture che amo di più. Un inizio Novecento spietato insomma.
Stiamo attraversando un momento “mondiale” piuttosto complicato: terrorismo, post Brexit e le elezioni americane che cristallizzano l’attenzione universale. Qual è ancora il ruolo dell’arte? Vedi futuri possibili all’orizzonte?
Una cosa è il mercato dell’arte e una cosa è il suo ruolo. Oggi l’arte va salvaguardata dalla tendenza a collimare con il mercato, troppo influente anche quando non dovrebbe: vedi le scelte dei musei, dei curatori, le stesse scelte editoriali. C’è un’ampia confusione tra ciò che occupa un primo piano nella compravendita e il ruolo rivestito dall’arte nella sua storiografia. Il mercato dell’arte ha cambiato il collezionismo, il museo, il modo di fare mostre. Una delle sue armi, oggi, è la comunicazione, utilizzata per mandare messaggi superficiali a cui le persone si adattano. La valutazione delle ricerche artistiche contemporanee è così ridotta a due elementi, insufficienti per stabilirne la qualità: il valore all’interno del mercato e la frequenza di apparizione nel mainstream. Per la qualità esistono altre profondità, in cui entrano in gioco categorie quali curatori, critici d’arte, oggi un po’assopite. Vengo toccata molto da questo fenomeno trattando artisti mid-career. Rifletto sul fatto che assistiamo a una grave perdita di fonti per i nostri posteri. Si è smarrita la necessità di recuperare il passato recente, che va riletto e criticizzato. La priorità attuale è la circolazione delle immagini ed è meraviglioso perché anche il mio cervello funziona così, ma viene a mancare un’autonomia nei parametri di giudizio.
Cosa pensi del sistema fieristico, ormai un po’ bulimico? In base a quali criteri scegli di partecipare alle fiere d’arte?
Negli ultimi dieci anni il sistema fiera è cambiato, ne è cambiato il peso. La fiera è ormai un luogo prioritario, ma non è lo spazio giusto per la critica. Negli ultimi cinque anni abbiamo assistito a un cambiamento ulteriore. C’è stato un momento in cui tutto il sistema dell’arte è entrato in crisi ed è allora che abbiamo capito che avrebbe influenzato tutto il resto, ecco la corsa alle fiere. Il sistema fiera quasi non funziona, è una perdita di energie e porta via tempo alla ricerca. Da due anni a questa parte tutti scegliamo con accuratezza le fiere giuste, quelle che riescono ad assorbire con più facilità il lavoro degli artisti in quel preciso momento storico.
Il 23 novembre inauguri la mostra di Patrick Tuttofuoco, artista di origini milanesi che hai appena iniziato a rappresentare. Questa mostra segnerà un preciso percorso di questa tua avventura? Esiste una linea che intendi tracciare qui a Milano?
Tuttofuoco è il primo artista italiano che presento a Milano. Quando vivevo a Milano Patrick era il motore delle cose che succedevano, un laboratorio continuo con un’energia e una generosità incredibili. In una pubblicazione curata da Nicola Ricciardi si parla molto del tempo, di come è cambiato rispetto agli anni Novanta e Duemila. Quando cresci negli anni Ottanta sei nell’ovatta più pura, guidata dall’idea che il mondo è meraviglioso e fatto di possibilità infinite. Gli anni Novanta sono finiti e il mondo è cambiato repentinamente, quel tipo di fiducia è crollata e Patrick, più di ogni altro in Italia, incarnava esattamente quello spirito; il suo lavoro è pregno dell’esperienza del mondo, un’empatia massima, è un passaggio importante e necessario a cui guardare. La fine di quegli anni è stata una molla e ha risvegliato in me un’accesa curiosità sul suo lavoro attuale. Patrick è totalmente Milano, di ieri e dell’oggi. Milano resta per me un campo privilegiato di ricerca alla quale ho voglia di restituire qualcosa.
– Hilary Clinton o Donald Trump?
Clinton, tutta la vita.