Angela Vettese su Artefiera / Bologna

25 Gennaio 2017

Da quest’anno dirigi una storica fiera d’arte moderna e contemporanea. Quanto e come la fiera, come sistema o fenomeno, rientra a far parte di quel “mondo dell’arte” di cui parla Arthur C. Danto?

Da quando ne sono parte anche curatori, artisti e direttori di fondazioni e musei, la fiera è il punto d’incontro più completo per i soggetti deputati a decretare cosa possa essere considerato “arte”. Stiamo però riferendoci a una corrente di pensiero precisa, incarnata non solo da Danto ma anche da Alloway, Dickie, Warburton, cioè coloro che hanno definito variamente la teoria istituzionale dell’arte. Lo stesso Danto nel suo ultimo libro lascia trasparire qualche dubbio su una dinamica solo intersoggettiva e sembra quasi recuperare un angolo di filosofia idealista, per la quale l’arte rimane indefinibile e in parte trascendente rispetto ai giudizi di un gruppo. È ovvio che un pensatore si evolve e ciò che ha scritto nei primi anni Sessanta può non coincidere con ciò che appare in What Art Is del 2013, una sua specie di testamento.

Che rapporto ha l’arte col presente, oggi? 

Oggi come sempre, ne è interprete. Un parlante senza parole, fatto di testi visivi. E a me pare che nel migliore dei casi interpreti anche il futuro, come ebbe a dire McLuhan nel suo Understanding Media.

Nel manifesto dell’Arte Povera (1967), Germano Celant afferma che l’uomo deve rimanere nel sistema e che non gli è permesso essere libero. Oggi a che punto è il rapporto uomo/libertà?

Celant scriveva quel testo quando la libertà sembrava a portata di mano, al tempo della speranza nella liberazione sessuale, razziale, di classe. Ma erano sogni da privilegiati dell’Occidente che si sono frantumati davanti alla globalizzazione. Siamo tutti condizionati dalle nostre società di riferimento, e certamente anche da poteri maggiori, come quello della finanza, delle religioni, di alcune direzioni scelte dalla ricerca scientifica… “libertà l’ho vista morire nei campi coltivati”, diceva De André citando Lee Masters. Beh, soprattutto nei campi coltivati dalla Monsanto, la libertà non c’è. Eppure abbiamo bisogno dell’agricoltura intensiva per sfamare il pianeta, non illudiamoci di potere tornare a coltivare quattro ettari di terreno e mantenerci una famiglia come accadeva fino a cent’anni fa. Il punto è che l’arte deve comunque provare a dare degli esempi di resistenza, come The Land di Tiravanija, gli esperimenti di convivenza senza consumismo organizzati da Theaster Gates, Lucy e Jorge Orta, Andrea Zittel. Sono comunque sempre solo exempla, appunto, ipotesi di resilienza che non possono sopportare di fungere da modelli sociali. L’arte in questo senso crea momenti di memento mori per un globo che deve trovare soluzioni di tipo geopolitico. L’arte non è un gioco ma non ha i compiti di un vertice tra nazioni.

In una recente intervista uscita su La Lettura (Corriere della Sera), portando l’esempio della recente scoperta del Libro rosso di Jung (55a Biennale di Venezia, 2013), affermi che l’arte infondo è sempre anacronistica. Ti va di approfondire il concetto?

Esiste una corrente storiografica che ne parla ampiamente anche se in modi diversi, da Didi-Huberman a Alexander Nagel, al nostro Giovanni Carreri. Diciamo che se Caravaggio o Piero della Francesca ci piacciono, non sono sempre piaciuti a tutti. Noi ci riconosciamo in ciò che ci assomiglia, e ciò che ci assomiglia può provenire da epoche passate diventando contemporaneo per una seconda volta. Semplifico un discorso articolato, che peraltro gli artisti praticano da sempre: sfogliano i libri di storia dell’arte, guardano Giotto o Rothko senza curarsi della data di esecuzione, partono da dove la loro sensibilità si muove. Non si tratta di citazioni e quindi neanche di postmoderno, a meno che non si intenda quest’ultimo termine nella sua accezione migliore, come superamento dell’incubo di vivere sempre e solo in un presente che avanza, nel dovere essere d’avanguardia. Un concetto marxista, ma prima ancora hegeliano e agostiniano, che non so quanto sia adatto ai nostri tempi.

A che punto è oggi la critica d’arte? Pensi sia ancora necessario procedere per via di definizione o classificazione di “correnti artistiche” (ad esempio il post-internet)?

Avere dei nomi con cui chiamare le cose è sempre comodo, quindi mi servirò sempre di termini anche fallaci, se considerati in profondità, come concettuale, minimalismo, relazionale e così via. Però dire che l’arte si sviluppa per correnti è un espediente didattico e io lo uso come tale. Se si va a fondo si capisce che dietro al termine minimalismo c’è stato un bisticcio tra artisti come LeWitt, Judd, Ryman, che è del tutto giustificato: ogni artista ha la sua poetica e i suoi riferimenti. Rispetto all’evoluzione delle maniere di fare arte, il mio riferimento preferito resta sempre comunque George Kubler e il suo The Shape of Time: ci sono sequenze formali che sono attuali per un po’ e poi decadono, come la pittura vascolare greca. Nessun genere di opera, nemmeno i quadri, le sculture, le performance saranno sempre attuali, perché cambierà il contesto di riferimento e avremo bisogno di altro, come un tempo avevamo bisogno di affreschi e di centrotavola di porcellana. Ma non stiamo parlando di correnti, stiamo parlando di urgenze nel risolvere problemi reali, che poi perdono il loro carattere di urgenza, appunto, lasciando il posto ad altre domande e quindi ad altre tipologie di risposta sia spirituale che stilistico, sia progettuale che esecutivo…

Quali sono le aspettative del pubblico sulla fiera di Angela Vettese? 

Non esiste un pubblico indifferenziato. Non credo comunque che ci si aspetti altro che una fiera dignitosa e animata. Abbiamo fatto molta teoria qui sopra, e sono convinta che sia una base necessaria. Ma in una fiera forse la pratica (del fatturato) vale più della grammatica. Il mio compito è più difficile di un bel bla bla.

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