(Im)-materialità e Identità, Lezioni, conversazioni e letture sull’arte e i suoi materiali è il seminario tenutosi nei laboratori del Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” organizzato da The Classroom e curato da Paola Nicolin. Due giornate d’incontri che hanno visto il contributo di artisti storici ed emergenti, esperti di arti digitali e cinematografiche. Durante le conversazioni sono state affrontate tematiche quali il passaggio dal materiale all’immateriale, l’impermanenza dell’effimero e l’impatto del restauro sul contemporaneo sollevando questioni fondamentali per la storia dell’arte, come la volontà dell’artista rispetto la conservazione del proprio lavoro, l’idea di durata e di temporalità, la trasformazione sia come processo intrinseco dell’opera sia come restauro. Ad aprire i dibattiti della prima giornata, incentrata su materiale e immateriale, è l’artista Piero Gilardi, figlio di un restauratore d’affreschi, che racconta cosa implichi restaurare qualcosa che non ha fisicità, sottolineando come talvolta possa essere superfluo l’ intervento manuale; Gilardi cita l’opera di Robert Morris Box with the Sound of its Own Making (1961), e afferma che un eventuale restauro potrebbe ridurre l’opera a un semplice documento che ne riporta il funzionamento, dal momento che qualsiasi altro intervento modificherebbe la natura stessa del lavoro. È in quest’idea di naturalità che risiede l’accettazione stessa della ciclicità delle cose. Gilardi suggerisce ancora, influenzato dal pensiero di Gilles Clément, che tutto si degrada, ma la fase di degrado è solo uno degli stadi dei cicli perenni attraverso cui la natura evolve nella sua perpetua palingenesi; nella sua proprietà rigenerante, il restauro pone la vita dell’opera al centro, dà corpo alla memoria storica e la mantiene. Quella che propone Gilardi è un’idea diversa sia di temporalità sia di restauro; i suoi tappeti natura, nelle intenzioni originali, dovevano essere effettivamente usati come tappeti, l’artista accetta l’usura dell’opera e così facendo la rende viva.
Lo scorrere del tempo e i flussi d’energia sono invece la materia della pratica del secondo artista a intervenire, Italo Zuffi. Nel suo lavoro Zuffi enfatizza quelli che si potrebbero definire “passaggi entropici”, composti da opere aperte, sia nell’accettazione del divenire temporale, sia nella loro ricezione. Enfatizzando i cambiamenti d’energia, Zuffi segue il celebre assioma di Lavoisier in base al quale nulla si distrugge e nulla si crea ma tutto si trasforma. Ricollegandosi dunque al restauro, le sue opere sono irrestaurabili proprio perché sono dei dispositivi che fanno circolare l’energia traducendola in altri modi e altri mondi, smaterializzando forme non concluse. L’artista accetta di delegare l’esistenza e il futuro della propria opera a chi l’acquista o ne fa esperienza; tuttavia la scomparsa non è totale: di ogni opera rimane, oltre la documentazione, la sua mitologia, l’esperienza vissuta, l’energia che ha cambiato forma.
Nelle pratiche di tre giovani artisti si possono rintracciare altrettanti approcci diversi al restauro: nelle opere di Lupo Borgonovo si trova una nostalgia archeologica per gli oggetti consunti e scartati; l’artista vagando per la città scatta foto a oggetti che mostrano forme che lo attirano per i richiami simbolici o per i profili sinuosi consumati da agenti atmosferici e dal tempo. Alberto Tadiello, artista che lavora con il suono e con l’installazione, accetta invece che il destino temporale dell’opera sia delimitato, lasciando che il tempo agisca e la trasformi; a suo parere il cambiamento testimonia che l’opera è viva e mutevole col passare del tempo. Similmente Hilario Isola, vicino alle categorie dell’effimero e della percezione, afferma che si deve seguire l’identità e il destino dell’opera; quando la materialità è più aleatoria, è il pubblico a divenire coautore e il ruolo del restauro muta di conseguenza.
Il focus della seconda giornata è incentrato sulla relazione fra materia e immagine e la loro ricaduta materiale in oggetti, parole e foto. Il primo artista ad affrontare questa tematica è Paolo Icaro, che riassume la sua poetica con un gerundio, “per-non-finire”, che sottende che l’opera non è finita e non conclude la sua missione ma, anzi, indugia nel suo essere un’indagine sempre in corso. Secondo l’artista, incontrare un’opera è un compromesso, poiché non c’è mai nulla di definitivo né di definito, sono fenomeni su cui non è dato sapere se ci sia una conclusione, e quindi anche un’idea di corruzione fisica in base alla quale un restauro dovrebbe intervenire; è amor fati e consapevolezza di non essere conclusi. La seconda parte della giornata vede poi avvicendarsi vari esperti: il professore d’estetica Andrea Pinotti traccia una storia dell’evoluzione dell’immagine da analogica a digitale e delle diverse interazioni che queste comportano; un passaggio già preconizzato da Benjamin quando prevedeva la dimensione immersiva e tattile dell’immagine riproducibile tecnicamente, in cui anche il pixel o il cloud da immateriali iniziano ad assumere una loro consistenza. Da qui ci si addentra nei modi di restaurare le opere che hanno a che fare con i time based media. Giulia Bruno e Sergio Toffetti portano la testimonianza di chi lavora con le immagini filmate nel mondo del cinema e con la consuetudine di restaurare le copie e non gli originali, Martina Angelotti e Ben Vickers, introdotti da Laura Barreca, mostrano come la digital art e il post-internet aprono dei quesiti e una dimensione operativa completamente nuova, cambiando non solo la tecnologia ma anche il nostro modo di relazionarci. A chiudere il panel gli artisti Diego Marcon e Marco Belfiore, con Barbara Ferriani e Iolanda Ratti che illustrano la loro pratica artistica e il loro approccio al restauro: mentre per Marcon la questione del ripristino dell’opera ad una fruibilità originaria implica un aggiornamento del supporto video per Belfiore, la cui pratica e più crossdisciplinare, il restauro si pone come un’attività estrinseca e a posteriori.