Nel sistema filosofico cinese conosciuto come feng shui – letteralmente vento e acqua – la qi, ovvero la forza metafisica dell’unità, si disperde e viene trascinata via dal vento, fino al suo arresto per via dell’acqua. All’interno dell’ 11a Biennale di Shanghai sono percepibili numerose brezze leggere come questa, in grado di potenziare le opere e agire su più livelli di senso.
All’ingresso Ocean Wave (2016) di Yin Yi, fa accendere e spegnere ritmicamente un piccolo gruppo di ventilatori elettrici. L’immagine dell’acqua presente nel video Flag (Thames) (2016), mette in scena un falso; si tratta infatti di una simulazione al computer durata un anno in cui l’artista, John Gerrard, ha evocato l’acqua sovrapponendo una larga chiazza di olio iridescente che ricopre senza sosta la superficie in movimento.
Il concetto di “movimento turbato” è in linea con un’osservazione sollevata da Monica Narula del team curatoriale Raqs Media Collective durante l’inaugurazione: “L’opera d’arte è un antidoto al veleno dell’inevitabilità”. Il suggerimento, allora, è quello di somministrare urgentemente una cura. L’intera mostra è costellata da testi a parete che descrivono i lavori utilizzando il tempo presente, come se fossero azioni. I curatori hanno strutturato la mostra come una ricerca “per scoprire, trasmettere e imparare…”. La domanda principale “Why Not Ask Again” [Perché non chiedere ancora n.d.t.] fa eco al saggio “Che Fare” di Vladimir Lenin, testo in cui viene problematizzata la questione e avanzata una proposta di cambiamento. Lenin prende in prestito il suo interrogativo dal romanzo di Nikolay Chernyshevsky, nel quale l’autore dà corpo a una vera e propria ideologia di vita. All’interno della mostra vengono poste domande scomode alle quali non segue, però, alcuna risposta.
Molte delle opere ricreano atmosfere attraverso l’odore, le strutture di superficie, il movimento, l’illuminazione o la prossimità, rendendo questi elementi significativi quanto il suono o la visione. Ad esempio, in So Far (2016) di Sun Yuan & Peng Yu, è presente una traccia di combustibile minerale posta al centro tra due carrelli elevatori disposti uno di fronte all’altro, come a simulare una lotta di tiro alla fune. Parcheggiati nei pressi della Power Station of Art, l’area principale in cui si svolge la Biennale, i due mezzi ostruiscono l’accesso al grande atrio. Tre bidoni sigillati, composti da cocci di ceramica tenuti insieme da anelli metallici, sono sospesi da catene agganciate ai due mezzi. Il dramma, contenuto implicitamente, fa riferimento all’esperimento di Otto von Guericke che nel 1654 ha dimostrato la pressione atmosferica, attraverso una performance memorabile in cui trenta cavalli tentarono di separare due emisferi di rame con un vuoto all’interno.
Il lavoro in questione è più elaborato, eppure sostituendo i corpi caldi di sedici cavalli sbuffanti con macchine fredde, e la plasticità del rame con materiale vetrificato e silicone sigillato, lo stupore della dimostrazione scientifica della pressione dell’aria è stato in qualche modo dissipato. Ad essersi persa è anche la cultura del lavoro, che ha portato la marca di jeans Levi’s, probabilmente ispirandosi a un’immagine dell’esperimento, a utilizzare un logo raffigurante cavalli sgranati in contrapposizione all’elasticità del prodotto aziendale. So Far è un monumento alla praxis. Ma ai visitatori non è consentito l’accesso – posto attraverso la struttura ad arco coinvolta – i quali devono, al contrario, girarci intorno.
Se un ethos del lavoro manuale può essere evocato attraverso la rappresentazione di strumenti, in questo caso sono stati tutti deposti. In As Long as You Work Hard (2013) di Cell Art Group, una fitta costellazione di utensili manuali è incastonata in un muro di acciaio; in Pechblende (2016) di Susanne Kriemann, “gli oggetti del minatore” giacciono inermi all’interno di proiezioni; e ancora in Noon Rest (2014) di Vinu V.V., alcune falci sono immobilizzate su un albero. Tutti questi rappresentano i momenti finali, in cui il lavoro è concluso e tutti vanno via.
In questa mostra la vita non prospera. In Caparazón (2010), Regina José Galindo si raggomitola pacificamente in una bolla protettiva dalla doppia parete in plastica, per poi subire un’assalto di percussioni da parte di una piccola folla armata di bacchette. Ragni e api sopravvivono nelle opere di Tomás Saraceno e Mousen + MSG, ma le loro cittadelle sono così fragili e facilmente sradicabili da dita maldestre o stivali distratti. La presenza è restituita per lo più sotto forma di traccia, come ad esempio nell’opera Clothes Line (2006) di Ayesha Jatoi – un monumento pubblico a Lahore – attraverso il bucato lasciato ad asciugare su un jet da combattimento; o nella vasta gamma di oggetti e manufatti presentati da Georges Adéagbo, in “The Revolution and the Revolutions”…! (2016).
“Why Not Ask Again” si configura come un’ambizione verso il futuro, nonostante molte delle opere si guardino indietro con aria interrogativa, in modo passivo o umoristico nel bisogno stagnante di mostrare come il passato possa scuotere e fratturare il presente. YoHa (Graham Hardwood & Matsuko Yokokoji) rappresenta una notevole eccezione. Nel suo lavoro Plastic Raft of Lampedusa (2016), un gommone smantellato meticolosamente le cui parti non assemblate si riferiscono inevitabilmente alla disperazione satura dei migranti, si intravede ancora qualche speranza. Ricostruirne i pezzi è un compito arduo e complesso, ma non impossibile. Sono pochi gli artisti che nel panorama attuale cercano nuovi modi per rimettere insieme i frammenti, preservandone e ristabilendone l’equilibrio.