Time is Out of Joint  La Galleria Nazionale / Roma

1 Febbraio 2017

Il concetto di tempo sembra decisamente segnare, non senza strascichi, il nuovo capitolo della storia della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, rivisitata anche nel nome: da ora in avanti, La Galleria Nazionale. Annunciato inizialmente come il “nuovo” allestimento del museo, “Time is Out of Joint” è in realtà una mostra che include solo parte della collezione. Svetlana Alpers in Is Art History? – celebre saggio pubblicato su Daedalus nel 1977 – teorizzò l’opera come piece of history, e la sua restituzione come fenomeno individuale nella sua singolarità. Successivamente negli anni Ottanta, la visione dell’opera d’arte come forma storica viene interposta fra una linea di sviluppo evolutivo e una linea espressiva da Hans Belting, citato proprio nel comunicato stampa di “Time is Out of Joint”, nel quale si legge: “L’esposizione, il cui titolo cita i versi dell’Amleto di William Shakespeare, “The time is out of joint”, sonda l’elasticità del concetto di tempo, un tempo non lineare, ma stratificato, che sembra porre in atto il dilemma dello storico dell’arte Hans Belting ‘la fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte’. È, dunque, il definitivo abbandono di qualsiasi linearità storica, per una visione che dispiega, su un piano sincronico, le opere come sedimenti della lunga vita del museo”.
La Galleria Nazionale presenta in questo ordinamento elementi che sembrerebbero, solo a una visione superficiale, conferire vitalità alle sale: le pareti si svecchiano dei colori della museografia tradizionale; adesso sono bianche, così come la boiserie che, “smaterializzata”, ricorda la scelta di Palma Bucarelli di smantellarla (fece poi la sua ricomparsa con Sandra Pinto); il linoleum grigio che copriva il salone centrale, apparso nel riallestimento del 2011, è stato rimosso, ripristinando il parquet originale, scelta più che condivisibile data la bruttura di quell’intervento. L’eliminazione di Passi (2011) di Pirri, che sempre dal 2011 identificava l’immagine del museo, libera l’atrio che si apre alla meditazione e al relax con un bookshop più accessibile spalmato sulle due ali laterali, anch’esso fedele a un’idea di apertura. Non questo quindi il disorientamento causato dal riallestimento, che deriva invece da questioni che hanno a che fare con il ruolo del museo, la storia dell’arte e la sua lettura nei suoi sensi più profondi.
“Time is Out of Joint” è un tale mash-up di Ottocento e Novecento che, se in pochissime sale quasi funziona, per il resto genera un’implosione delle opere stesse, forzate in un dialogo che nella maggior parte dei casi non esiste e apre varchi a un vuoto possibilismo. Lo smembramento di alcuni nuclei, come il neoclassicismo italiano, non è fastidioso per l’azione in sé (neanche la linea più conservativa di storici e critici d’arte negherebbe i limiti attuali di un ordinamento puramente cronologico e stilistico di echi vasariani), quanto per la scelta di ricollocare queste sculture nelle sale innescando strani rapporti di “sguardi” con i quadri e letture estetiche discutibili, come ad esempio la possibilità di “apprendere” come cambia la raf-figurazione (viene da chiedersi su quale relazione poggi l’accostamento di Grande particolare di paesaggio italiano in bianco e nero (1963) di Schifano e Alla stanga (1886) di Segantini se non il collegamento spicciolo basato sulla vicinanza della rappresentazione del paesaggio italiano. A questi si aggiunge Mattina, 26 luglio 2010 (2012) di Rento il cui collegamento visivo è banalmente rappresentato dal soggetto della mucca, che ritorna anche in altri quadri presenti nella sala). Il dibattito si è acceso anche sull’Ercole e Lica (1795-1813) di Canova che sovrasta i 32 metriquadri di mare circa (1967) di Pascali la cui leggerezza drammatica fra reale e ideale è azzerata, come l’infilata di opere a parete che non dialogano, se non con loro stesse. Altro accostamento didascalico avviene tra le Ninfee rosa (1897-99) di Monet messe a confronto con le Ninfee (dettaglio n.7) (1991) di Arienti e le Ninfee (2004) di Rento (entrambi prestiti esterni), ancora un altro modo di “interpretare” per connessioni tematiche vacue e blande. È davvero sufficiente giustificare questa manovra servendosi dell’“anacronismo” beltinghiano (una linea critica condivisibile per tanti versi) o facendo eco a una ferocia futurista dell’“uccidiamo il museo?” Belting non teorizza l’epurazione della storia dell’arte e del suo sviluppo dal museo; rifiuta sì il paradigma di una storiografia artistica ma come sviluppo stilistico lineare, proponendo un’apertura verso la dimensione della ricezione e l’indagine del medium; il punto è che questa manovra, a tratti debole e poco responsabile, non stimola nemmeno un’antropologia dell’arte o una storia coerente della percezione, per citare sempre Belting. “Time Is Out of Joint” vive di un paradosso: dall’auto-dichiararsi estranea a ogni storiografia possibile e fuori dal tempo, da un lato azzera quest’ultimo e dall’altro fornisce una lettura che si consuma nel preciso istante dello sguardo, assumendo il carattere di un’operazione dispotica e autocratica del ri-pensatore. Non una nuova storiografia quindi, o un’alternativa teoricamente valida che dia la possibilità di un’evoluzione della cultura.
Ma siamo nel secolo dove tutto si può, l’arrendevolezza alla banalità del singolo si trasforma in un’apatia culturale massificata e così, via anche le didascalie, il museo deve essere “moderno”, un teatro per stupire l’osservatore che ha bisogno di picchi di eccitazione che lo risveglino dalla noia, un intervallo di tempo out of joint, appunto. Quel che rimane è o sarà l’ennesima storicizzazione di un allestimento – o forse neanche quello, data la breve durata di questa presentazione – che nella nuova era del museo si preannuncia come qualcosa che non avrà mai una compiutezza. Cosa rimane quindi dopo il tempo?

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