Jos De Gruyter & Harald Thys presso le architetture possenti della Triennale di Milano collocano l’osservatore all’interno di una cornice arbitrariamente perfetta che, dietro la sua eleganza formale, cela tuttavia la menzogna e il fallimento dello spazio espositivo. Quello del duo belga è un trompe l’oeil costruito con il rigore di chi vuole elevare e allo stesso tempo portare ai limiti la teorizzazione dello spazio-mostra. Gli elementi che abitano il contenitore vacillano fra il loro essere “opera d’arte” e la loro condizione di oggetti-studio, che il curatore e gli artisti mettono in relazione con l’area che li ospita. Dunque le teste in gesso e pittura, le sculture metalliche bidimensionali e in terra cruda, i ritratti e i disegni ad acquarello fanno i conti con la parete – elemento architettonico che entra in crisi in seguito alla separazione della cornice dal quadro, per poi affrontare negli anni ’60 la famosa rottura del rettangolo che confermò la sua autonomia.
All’interno di “Elegantia”, termine che dà il titolo alla mostra, si assiste a una serie di coscienti inadeguatezze che hanno inizio a partire dalla struttura espositiva. Una sequenza di teste che appaiono sproporzionate, a tratti goffe e velatamente ironiche, sono posizionate su parallelepipedi non a misura d’uomo che richiamano alla classicità; le due stanze ai lati della “galleria” si concretizzano come display nel display, dando vita a una spettacolarizzazione sobria e sommessa di modalità allestitive fondamentali nell’evoluzione dell’oggetto artistico. Archi schiacciati sulle pareti da “white cube”, si alternano a una serie di ritratti Les Enigmes de Saarlouis (2013) e inermi circoscrivono un interno a tratti bulimico. La serie di White Elements (2012-2016), oggetti metallici imponenti e fortemente ibridi nella composizione presentano una componente pittorica dovuta alla bidimensionalità, accentuata dai ritratti a matita; nei White Elements, prototipos (2016) sono presenti, in formato ridotto, esercizi sottili fra principi di scultura (che ricorda le forme costruttiviste), elementi allestitivi e il ruolo dell’identità. Ad acuire l’ironia dell’operazione degli artisti è probabilmente la serie Fine Arts (2015), acquerelli dai soggetti più disparati prelevati dalla storia dell’arte, allestiti a mo’ di quadreria da Salon ottocentesco che rimanda però a un ulteriore topos ormai legato alla critica d’arte post-strutturalista, ovvero l’uso della griglia (che fa da struttura ai quadri e si ripete all’interno degli archi).
“L’arte esiste in una specie di eternità dell’esposizione e benché vi si distinguano diverse caratteristiche ‘di periodo’ (il tardomodernismo), non conosce tempo. Questa eternità fa della galleria uno status comparabile al limbo; per accedervi bisogna essere già morti” (Brian O’Doherty, Inside the White cube). È questa condizione dello spettatore di cui parla O’Doherty, il suo oscillare confuso tra ruoli ambigui, la sua facilità nell’essere ‘guidato’ e addestrato nella successione di spazi che ha saputo consapevolmente o meno attraversare, a incrinarsi con la funzione dell’occhio, che invece percepisce e riconosce in modo puro la figurazione e il piano pittorico. “Elegantia” riesce a far convivere e attrarre nella mostra le due entità, lo spettatore e l’occhio: il primo in grado di cogliere la purezza riprodotta della scatola bianca, di discernere la distonia fra il suono che aleggia in un loop disturbante e la sua fonte – la riproposizione di un giardino ameno ideale con sculture fredde e meccaniche –, di perdersi negli occhi vuoti e attoniti che si ritrovano in ogni lavoro e il secondo che apprende la figura, i tratti e la composizione delle forme.