Tancredi Collezione Peggy Guggenheim / Venezia

8 Marzo 2017

Undici sale come fossero undici stazioni laiche. Undici capitoli di un percorso irrequieto e inarrestabile. Poco più di novanta, selezionate opere per passare in rassegna quell’avventura di estrema mobilità mentale e di bruciante varietà di segni e di forme che caratterizzano l’opera di Tancredi. Un continuo divenire che scarta l’idea, il modello, per privilegiare il fenomeno, senza però che questo venga “descritto”, quanto invece sempre creato. Non disegni, ma segni, non metafore, ma costruzioni di mondo: immagini che sembrano ogni volta rimeditare il ritmo fluente e inafferrabile dell’infinito. Persino le prime matite su carta sono cariche di suggestioni simboliste: guardano al soggetto, ma in maniera corsiva, stilizzata, astratta. È già la magica percezione dello spazio non misurabile, non visibile direttamente, ma solo immaginabile, a interessare Tancredi. “Dal punto io parto”, scrive, perchè è l’elemento geometrico più lontano da qualsiasi immagine di forma e “ha per legge il vuoto da tutte le parti”. Ne viene un susseguirsi di gremite tessiture di colore, di impulsi calligrafici fatti di segni, punteggiature, virgole: una evocazione di galassie lontane, senza contorni definiti, senza dimensioni certe.
La sua è sempre una Natura vergine o una Primavera (come suonano i titoli di opere del 1952-53), perchè ritiene che “la pittura sia appena nata…” e che muti con il mutare delle stagioni, degli umori, dei luoghi. Così, in A proposito di Venezia (del 1958) il colore sembra farsi pelle trasparente, diafana, incorporea, quasi per consentire alla luce di affiorare da dietro la superficie. Mentre in A proposito dell’atmosfera norvegese (del 1959), i toni si fanno più freddi, i piani più scanditi, le materie più dense. Tancredi vuole avere il mondo dentro, dice che “un uomo è grande quanto più universo ha in sè”. Ma a partire dagli anni ‘60 questo universo si fa dolente, si riempie di fantasmi, di grafie febbrili e stralunate. I quadri appaiono sempre solari, disseminati di un colore sontuoso e brillante, ma con sopra collages, carte da parati, fiori di stoffa. È come se Tancredi volesse replicare con ironia Fiori dipinti da me e da altri 101% (1962) al debordante New Dada di Rauschenberg. La sua, è la risposta di un artista italiano, innamorato della pittura, della natura: di un mondo impossibile a fronte di un mondo divenuto tutto “oggettuale”.

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