Paola Capata su Monitor / Lisbona

22 Maggio 2017

Iniziamo con le novità: il 19 maggio hai inaugurato un nuovo spazio con la personale di Graham Hudson; perché a Lisbona? 

Perché è un bel posto. Scherzi a parte, Lisbona è una città che vive un momento di forte crescita e fermento, ed è estremamente stimolante farne parte. Abbiamo instaurato un ottimo rapporto con i colleghi e alcuni collezionisti locali, per questo la decisione di aprire uno spazio in città è stata accolta con grande entusiasmo. Con la nostra programmazione ci auguriamo di poter aggiungere un piccolo tassello alla già ottima offerta culturale che la città presenta. La galleria è molto piccola (circa 50 mq) e si trova in un quartiere centralissimo, nello snodo tra Amoreiras e Rato. Lo spazio era una vecchia cartoleria (“papeleria” in portoghese) che anni fa ha subito un incendio. Abbiamo deciso di lasciarlo così com’era senza fare alcun lavoro di recupero, e Graham Hudson, con cui collaboro da dieci anni, mi è sembrato l’artista giusto per un progetto come questo. Hudson ha pensato due lavori site specific che si integrano con il carattere di “rovina” dello spazio. Una cosa del tutto nuova per Lisbona, dove le gallerie sono luoghi perfetti, pulitissimi, scintillanti.

Uno degli artisti della tua kermesse Nathaniel Mellors rappresenta (insieme a Erkka Nissinen) la Finlandia alla 57a Biennale d’arte di Venezia. Il progetto consiste in una installazione che affronta temi come il nazionalismo e la costruzione di un’identità. Per un artista, oggi, quanto pensi sia realizzabile la costruzione di un’identità propria e, di conseguenza, ottenere una riconoscibilità tale da imporsi nel mondo dell’arte in modo durevole? 

Nathaniel ed Erkka sono riusciti a realizzare un progetto incredibile: divertente, colto, ironico. Il fatto che sia stato pensato da due artisti molto diversi, per cultura e provenienza, credo sia un punto su cui riflettere. Sono abituata a lavorare con artisti piuttosto al di fuori delle leggi del mercato o delle “popolarità” vigenti. Gli artisti che rappresento hanno davvero tutti, nessuno escluso, un innato senso identitario molto forte. Ma devo dire di non essermi mai posta questa interessante domanda. Scelgo gli artisti in base alla coscienza di sé e del proprio lavoro a prescindere dai trend del momento. Certo, sarà solo il tempo a decidere se riusciranno a essere sui manuali di storia – ammesso che se ne stampino ancora.

Sempre a Venezia a Palazzo Nani Bernardo, Thomas Braida è presente con la personale “Solo”. Com’è relazionarsi e seguire un artista più giovane rispetto a quelli più vicini alla tua generazione? 

Beh, a dirla tutta, Thomas ha solo sette anni meno di me quindi: o sono ancora molto giovane io oppure è lui a essere vecchio! Intendo dire che ogni artista è un caso a sé stante; lavorare con Thomas è fantastico perché oltre ad essere un’artista straordinario, è un vero professionista. Una persona che non perde mai il controllo di sé, che sa esattamente cosa fare e quando, insomma un uomo di poche parole ma quasi sempre tutte giuste. La mostra ha ricevuto ottimi feedback e ne siamo entrambi molto felici, anche grazie al lavoro eccezionale e impagabile di Caroline Corbetta. È molto bello assistere alla crescita e al rafforzamento del sodalizio tra un curatore e un artista e posso dire che questa mostra è stata uno splendido lavoro di squadra.

Torniamo indietro. Nel 2014 hai inaugurato “Monitor Studio” nel Lower East Side. Allora ti proponevi di esportare il tuo modus operandi di gallerista con un’idea e una linea ben definite così da rendere più visibile il lavoro di alcuni artisti italiani. Come si è conclusa l’avventura newyorkese? Bilanci a posteriori? 

L’avventura newyorkese è stata una delle cose migliori che abbia mai fatto. È durata quasi un paio d’anni, tra lo spazio pop up in Rivington Street e quello di Christie Street, arco di tempo in cui abbiamo realizzato sette mostre tra collettive e personali. Thomas Braida ad esempio ha esposto nel novembre 2014 ottenendo fin da subito una buona attenzione tra collezionisti e curatori. Nell’estate 2015 l’esperienza si è conclusa con una residenza in situ di Tomaso De Luca (ecco, Tomaso sì che è giovane – classe 1988) che ha utilizzato Monitor Studio come un vero e proprio laboratorio realizzando un lavoro site specific completamente legato all’esperienza newyorkese e allo spazio.
Il bilancio è davvero positivo e ripeterei l’esperienza, senza dubbio. Oltre ad approfondire la conoscenza del mercato americano, naturalmente anche la nostra rete di contatti ne ha beneficiato. Adesso torno a New York due o tre volte l’anno, come fanno in molti, e cerco di tenere vive le nostre relazioni.

Monitor è una delle poche gallerie romane a essere una presenza costante in tante fiere importanti, internazionali e italiane. Però non fai miart, perchè? Non trovi che negli ultimi anni la qualità e la linea della fiera si siano definite maggiormente? Non pensi che Monitor possa ritagliarsi un suo spazio all’interno?

Io credo che miart sia una fiera splendida e che Vincenzo De Bellis, prima, e Alessandro Rabottini, poi, abbiano fatto un lavoro eccellente restituendo alla città una vera fiera d’arte contemporanea, con presenze internazionali forti e progetti curatoriali strutturati e colti. Il problema che riscontriamo è per lo più di calendario: miart è circa una settimana prima della fiera di Dallas (alla quale abbiamo partecipato negli ultimi due anni) e poi quest’anno, con la preparazione dell’avventura lisbonese, è stato impossibile prendere in considerazione l’idea di partecipare.
Ma non escludo nulla in futuro, è chiaro.

Che rapporto hai con la pittura? Come hai sviluppato questo interesse dagli inizi di Monitor a oggi?

Nel 2009 abbiamo inaugurato quella che è ancora l’attuale sede della galleria a Roma con una personale di Ian Tweedy, artista brillante il cui lavoro si è immediatamente distinto per la qualità pittorica. Da allora a oggi la scelta operata credo sia abbastanza leggibile: astrazione solo ed esclusivamente riferita a quegli artisti attivi principalmente dal secondo Novecento – vedi la collaborazione con Claudio Verna iniziata nel 2013 – e la figurazione legata invece alle nuove generazioni: in Italia Thomas Braida e  Nicola Samorì, all’estero Peter Linde Busk e Benedikt Hipp. Mi piace lavorare con pittori che abbiano una forte coscienza del passato e del mezzo che adoperano, che lo sappiano usare con intelligenza e tecnica. Al momento sono felice di queste collaborazioni. Lo stand di Arco Lisbona 2017 è stato un esempio di questo nostro discorso transnazionale: ci sono opere di sei artisti, da Elisa Montessori a Claudio Verna, da Braida ad Hipp tutti legati da un’unica componente cromatica, il blu, in omaggio ad uno dei colori della città.

Come immagini il futuro dell’arte italiana? Ne vedi uno?

Beh me lo chiedi appena dopo la Biennale di Venezia, quando potevi andare in giro per le calli felicemente orgoglioso del Padiglione del tuo paese, che era tra i più belli.
Io credo che gli artisti italiani siano tra i migliori in Europa. Sono solo troppo vessati dalla pigrizia del paese, dall’assenza di un supporto istituzionale, da un sistema che ristagna. La nuova generazione, a mio parere, si sta sganciando da tutto questo: viaggia, parla inglese, conosce le maglie del nostro sistema. Io credo che le cose andranno meglio, sta già succedendo.

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