Al terzo anno di vita Granpalazzo, la piccola fiera indipendente organizzata da tre galleristi (Paola Capata, Delfo Durante e Federica Schiavo) e una curatrice (Ilaria Gianni), ha cambiato sede – le prime due edizioni si svolsero a Zagarolo, questa invece ad Ariccia – e il grande edificio che lo ospita, Palazzo Chigi, è, se possibile, ancora più carico di storia e suggestioni del precedente (c’è l’intervento di Bernini sul palazzo e la piazza antistante, la quadreria barocca all’interno, il cortile con vista sul parco, le memorie cinematografiche, da Visconti a Matteo Garrone).
L’atmosfera, invece, resta la stessa delle passate edizioni, con quel clima da gita fuori porta, spensierato e un po’ caciarone (Ariccia è un paese noto per le sue fraschette e trattorie), che accompagna il percorso dello spettatore verso la sede di Granpalazzo e penetra, in una forma più composta, la fiera stessa. Il punto è che Granpalazzo finisce per colmare il vuoto lasciato dalla fallimentare esperienza di una fiera romana (terminata alcuni anni fa), e lo fa soprattutto attraverso la scelta di una sede laterale e decentrata rispetto alla città, che sublima, senza forzature concettuali, quella tendenza sempre più consolidata di infiltrare il contemporaneo nei luoghi storici.
Granpalazzo è dunque uno strano ibrido, un incrocio tra una fiera e un evento espositivo che si affida alla sensibilità di una curatrice e dei galleristi, invitati a interpretare uno spazio così connotato presentando un solo artista; è un luogo in cui diverse figure maneggiano il formato fiera (così determinante per quelli che si sono formati a cavallo tra anni Novanta e Duemila) e si incontrano per mostrare come la diffusa intercambiabilità tra ruoli e figure nel mondo dell’arte non genera solo confusione ma talvolta, se si indovina una voce corale, costituisce una risorsa.
Se le cose stanno così si può provare a trattare Granpalazzo come una vera mostra, e passare in rassegna alcuni degli interventi più riusciti: Skins (2017) di Ann Iren Buan (rappresentata dalla galleria Apalazzo), grandi rotoli composti da vecchi disegni che finiscono per leggersi in continuità con le pareti intonacate della sala che le ospita ed entrano in dialogo con l’altra artista presentata all’interno della stessa stanza, Amie Dicke (Anat Ebgi), le cui immagini erose comunicano lo stesso senso di strappo, o di lacerazione; Autoritratto come tramonto triangolare (2017) di Francesco Gennari (Zero…), una piccola foto che campeggia in una sala vuota (in perfetto stile Zero…), un’immagine di un “uomo/tramonto”, organizzata attraverso alcune geometrie luminose; i dipinti di Clive Hodgson (per la galleria Arcade), un campionario di forme astratte, automatiche, involontariamente moderniste, che l’artista firma sulla superficie (ogni volta con grafie sensibilmente diverse e appariscenti) come per sottolineare il problema dell’autorialità in pittura; Indoor Flora (2016) di Alice Ronchi (Francesca Minini), composto da elementi colorati e industriali (pezzi di tubi idraulici) capaci di attrarre, come in una stanza delle costruzioni, molti bambini e qualche adulto; le fotografie di Pierre Descamps (The Goma), con immagini di architetture utilizzate dagli skater come rampe in diverse parti del mondo, algide interpretazioni, in chiave minimalista, di luoghi attorno a cui si addensa una forte dimensione di assenza.
Infine alcune note stonate: l’eccessivo affollamento della prima grande sala, che penalizza un poco i bei lavori di Alis / Filliol (Pinksummer), Arcangelo Sassolino (Rolando Anselmi), Ana Cardoso (Collicaligreggi), e la presentazione delle opere di Albert Samson (Massimo Minini), un lavoro vagamente “tuymaneggiante” che alterna alcuni dipinti figurativi a monocromi o dipinti astratti, la cui lettura è fortemente compromessa dalla scelta (apparentemente obbligatoria, visto che in una sede storica non si possono bucare le pareti, ma comunque immotivata) di un allestimento su pavimento.